martedì 27 novembre 2018

J.L. Linares e l'intelligenza terapeutica come Minimo Comun Denominatore della psicoterapia relazionale.


di Barbara Bertelli, psicologa psicoterapeuta. 



Il contributo di Juan Luis Linares alla psicoterapia relazionale è vasto ed articolato, essendo il risultato di ricche esperienze personali e professionali. Di fronte a tale complessità l'addetto ai lavori, sia egli terapeuta, formatore o allievo, si può muovere in due modi, entrambi fruttuosi e non necessariamente escludentesi.
Il primo, di tipo puntiforme, prevede che ci si soffermi sui singoli concetti teorici che costituiscono l'ossatura del pensiero di J.L. Linares: la distinzione tra coniugalità e genitorialità, il nutrimento relazionale, l'abuso psicologico e quello fisico, il neglect, intelligenza terapeutica... Questo modo di procedere rappresenta il tentativo di parcellizzare un pensiero complesso, ma fluido e coerente.
Se l'esigenza è invece quella di "sintetizzare", l'obiettivo diventa quello di individuare un Minimo Comun Denominatore tra i diversi costrutti.
La psicoterapia per J.L. Linares è familiare per scelta, per deduzione non per vocazione o fede. Secondo J.L. Linares, infatti, una buona terapia deve mantenere due referenti fondamentali: l'individuo e la società. L'individuo, in quanto soggetto sofferente e portatore di sintomi e la società, in quanto conferisce significato condiviso al singolo comportamento e rappresenta risorse ed ostacoli per la soluzione del problema. La famiglia rappresenta l'intermedio tra i due.
In quanto terapeuti, il trovare le giuste risposte, o per lo meno le migliori, è ovviamente un obiettivo di responsabilità umana oltre che professionale.
J.L. Linares è molto chiaro in proposito. La terapia per essere efficace deve produrre un cambiamento nella direzione di una riduzione del malessere dell'individuo e/o della famiglia, attraverso l'utilizzo consapevole del terapeuta stesso, impegnato, in quanto esperto, ad instaurare un "buon trattamento", amorevole in un certo senso e non basato unicamente sulla logica del controllo.
Questa consapevolezza dovrebbe coinvolgere, oltre le famiglie, anche la società e le istituzioni.
Privi di questa "sensibilità terapeutica" gli interventi rischiano di fallire, di ridursi a tentativi riabilitativi validi ma tronchi.
In termini diversi, Luigi Cancrini ha espresso un concetto assimilabile a quello di Linares parlando di "cultura psicoterapeutica relazionale", indicando con questa uno strumento – sociale anche se clinico – indispensabile per il benessere umano.
Sembra intuitivo, logico, la scoperta dell'acqua calda. Non esattamente e la storia, incredibilmente recente, lo dimostra. L'esperienza sofferta del dr. Semmelweis, medico ungherese che all'inizio del '900 ha operato nel reparto di ostetricia del famoso ospedale viennese (la cui biografia è diventata un celebre romanzo di Celine, oltre che la sua tesi di laurea in medicina) fornisce un utile spunto di riflessione. Brevemente: per i suoi contributi allo studio delle trasmissioni batteriche da contatto e alla prevenzione della febbre puerperale è noto come il "salvatore delle madri" e per le stesse intuizioni che prevedevano unicamente l'obbligo per i medici di lavarsi le mani con una soluzione di cloruro di calce dopo aver praticato un'autopsia e prima di visitare le partorienti in corsia, è morto in manicomio senza alcun riconoscimento. Il contesto in cui presentò la sua "illuminazione", non ebbe nè la capacità nè l'umiltà di riconoscerne il valore, negandolo con indifferenza ostile.
J.L. Linares direbbe che Semmelweis brillava per intelligenza terapeutica in quanto portatore di senso comune (osservava e si domandava), onestà intellettuale (Celine scrive: "non si sarebbe mai messo sul cammino della ricerca se non vi fosse stato spinto da un'ardente pietà per la rovina fisica e morale dei suoi malati"), ragionevole percorso formativo e coraggio di portare avanti ciò in cui credeva indipendentemente da ostacoli burocratici e barriere corporative.
Volendo concludere, al di là degli specifici campi di interesse (siano essi la psicopatologia relazionale, le tossicodipendenze, la narrativa come risorsa tecnica persuasiva...), l'approccio sistemico-relazionale non è soltanto un metodo clinico, ma un modo di guardare il mondo, dove dissentire è un dovere oltre che un diritto, a patto che il dissenso sia intelligente.

venerdì 23 novembre 2018

Il modello delle Realtà Condivise come approccio narrativo alla psicoterapia

a cura di Valentina Albertini, psicologa psicoterapeuta.



Raccontati un’altra storia
Il modello delle Realtà Condivise come approccio narrativo alla psicoterapia
“Tutti i Figli dell’Uomo che sono venuti fra noi hanno appreso qualcosa che solo qui potevano apprendere e che li ha fatti tornare nel loro mondo profondamente mutati. Erano diventati dei veggenti perché ci avevano visto nella nostra vera natura. Per questo potevano guardare il loro stesso mondo e il loro prossimo con occhi del tutto diversi. Là dove prima non vedevano che banali cose quotidiane, scoprivano di improvviso miracoli e misteri. Per questo venivano volentieri da noi in Fantàsia. E quanto più ricco e fiorente diventava il nostro mondo grazie a loro, tanto meno erano le menzogne nel loro mondo, e tanto più perfetto esso diventava. Così come due mondi possono distruggersi a vicenda, allo stesso modo possono vicendevolmente risanarsi”. “Perché solo un nome nuovo può risanarti?” “Solo il nome giusto dà a tutte le cose e tutte le creature la loro realtà”, spiegò lei. “Il nome sbagliato rende tutto irreale. Questo è ciò che fa la menzogna”.
Michael Ende, La Storia Infinita

La realtà la costruiamo a parole. I sociologi Peter L. Berger e Thomas Luckmann, nel loro lavoro La realtà come costruzione sociale (1966), sostengono che la realtà non è qualcosa a priori, ma viene costruita come prodotto dell'attività umana, seguendo un processo dialettico. Definiamo chi siamo condividendo la quotidianità con chi abbiamo intorno, con le nostre relazioni significative. Questa realtà condivisa, che garantisce una certa stabilità alla nostra identità e rende la nostra vita più prevedibile, diventa però col tempo “dominante”: impedisce infatti a possibili identità alternative, nascoste nei sottomondi sociologici, di emergere e permetterci di “raccontarci” in modo diverso. Le persone tendono a confermare la realtà dominante, per un bisogno naturale di stabilità e prevedibilità del mondo. Ma cosa succede se quelli che ci vengono attribuiti sono ruoli rigidi e potenzialmente patogeni? Cosa succede se intorno a noi tutti iniziano a definirci come “il depresso”, “l’anoressica”, “il bordeline”?.
Capita spesso che le persone arrivino in terapia portandosi dietro un ricco carnet di diagnosi, ormai parte strutturante della propria identità: “dottore, io sono un bipolare!”. E più queste identità sono condivise e confermate, tanto più è difficile creare un cambiamento, andare a pescare nei sottomondi sociologici ipotesi alternative su ciò che siamo e sui perché siamo così.
Il Modello delle Realtà Condivise [1], sviluppato da Gianmarco Manfrida, partendo dai presupposti sociologici di Berger e Luckmann , si interroga proprio sul cambiamento terapeutico e su come un terapeuta possa aiutare il paziente a “ri-scrivere la propria vita” [2,3]. Dice Manfrida che nei racconti dei pazienti, sommerse in un mare di banalità confirmatorie, compaiono a tratti, spesso in modo incongruo, delle discrepanze, squarci di racconti alternativi provenienti dai sottomondi sociologici, sfere di dati e di significati anch’essi socialmente condivisi e confermati, ma minoritari e relegati nell’ ombra della consapevolezza. Scopo del lavoro terapeutico è proprio il recuperare questi pezzi di realtà nascosti e costruire insieme al paziente delle storie alternative, dei modi di raccontarsi che liberino dalle rigide identità patogene condivise e portate nella stanza di terapia.
Questo aiutare i pazienti a “riscrivere” le proprie storie è ciò che inserisce il sintomo all’interno di una rete di significato e rende il cambiamento terapeutico stabile: “il terapeuta si affianca al romanziere nel dare grande importanza a una piccola selezione ricavata dal complesso dei fatti, prendendo ciascun evento non solo per quello che vale in se stesso, ma anche per il significato che acquisisce in una prospettiva allargata”[4].
La metodologia narrativa è un orientamento relativamente recente all’interno del mondo della psicologia: osservando la storia della psicoterapia si può notare infatti che negli anni [5] l’enfasi si è gradualmente spostata dalla “verità storica” (che deve essere scoperta dal terapeuta) alla “verità narrativa” (che terapeuta e paziente costruiscono insieme). Uno sviluppo narrativo della terapia familiare ha permesso ai terapeuti di concentrarsi sugli effetti invece che sulle cause consentendo una maggiore fluidità delle narrazioni, cioè una loro evoluzione nel tempo, e di rivalutare le interazioni terapeutiche che diventano “esperienze” e non semplici raccolte di informazioni [6]. Anche secondo Ricoeur [7], l’approccio narrativo all’interno delle psicoterapie implica che il terapeuta costruisca delle storie alternative che ancora non sono state narrate: la vita è infatti un semplice fenomeno biologico finché non viene interpretata attraverso una narrazione. “Relazioni e contesto sono, quindi, gli ingredienti della nostra identità, la narrazione è la tecnica di cottura universale di noi terapeuti; utilizziamo poi altre sottotecniche speciali (strutturali, strategiche, paradossali, delle domande circolari, delle sculture) e una quantità enorme e variabile di strumenti affascinanti e utili” [8], ed ogni volta che entriamo nella stanza di terapia non possiamo esimerci dal narrare qualcosa: la narrazione è, de facto, parte integrante di qualsiasi terapia [9]. Il termine “narrativo” nella psicoterapia è utilizzato in due modalità diverse: la prima consiste nell’analisi del materiale terapeutico in termini narrativi; la seconda, , insiste invece sulla necessità di proporre interventi terapeutici che vengono chiamati, appunto “terapia narrativa”. Caillé sostiene che il racconto è un esempio di lavoro terapeutico in cui l’estetica della terapia (che si ritrova nella forma metaforica e spesso poetica del racconto) non è mai fine a se stessa ma si ricollega a un’etica: “e quest’etica consiste nella responsabilità del terapeuta di farsi garante di un processo in cui, contro ogni schema pedagogico o manipolativo, vengano attivate le risorse creative della famiglia, emergano altre possibilità di scelta” [10]. Non basta però una semplice narrazione affinché l’intervento sia realmente terapeutico. È necessario che le storie alternative che possono emergere con l’aiuto del terapeuta abbiano delle caratteristiche che le rendano capaci di produrre un cambiamento [1], e queste caratteristiche secondo il modello delle Realtà Condivise sviluppato da Manfrida sono la plausibilità, che consente di proporre il canovaccio della nuova storia e di definire il contratto che autorizza a lavorarci sopra; gli aspetti di persuasione, che permettono di rinforzare sul piano logico ma anche emotivo lo sviluppo della nuova storia; ed infine gli aspetti di validità estetica, utilizzati allo scopo di rendere il cambiamento appetibile e desiderabile.

Bibliografia di riferimento
[1] Manfrida, G., La narrazione psicoterapeutica. Invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale, Franco Angeli Editore, Milano 1998
[2] White M., Re-Authoring Lives: Interviews and essays, Adelaide, Dulwich Centre Publications 1995
[3] White, M. La Terapia come narrazione, Casa Editrice Astrolabio, Roma, 1992
[4] Polster, E. Ogni vita Merita un romanzo. Quando raccontarsi è terapia, Casa Editrice Astrolabio Roma, 1988
[5] Spence, D. Narrative truth and Theoretical truth, Psychoanalytic Quarterly; Volume 5, 1982
[6] Papadopoulos R. K.; Byng Hall J. Voci multiple. La narrazione nella psicoterapia sistemica familiare, Mondadori editore, Milano 1999
[7] Ricoeur P., Narrative Identity, in Wood D., Ricoeur, P., Narrative and interpretation, Routledge, London 1991
[8] Manfrida, G., L’Artusi, la nouvelle cuisine e la psicoterapia: conservazione, innovazione e mode in terapia relazionale, in Ecologia della Mente, Volume 32, Il pensiero Scientifico Editore, Roma 2009
[9] Zimmerman, J.L., Dickerson, V.C., Using a Narrative Metaphor: Implications for Theory and Clinical Practice, Family Process Volume 33, June 2004
[10] Caillè P., Rey Y., C’era una volta. Il metodo narrativo in terapia sistemica. Franco Angeli, Milano 1998.

giovedì 12 luglio 2018

Le Avventure del Barone di Münchausen


Di Lucia Bilanci, psicologa psicoterapeuta. 


E’ estate, tempo di vacanze e di otium. Per me indica il momento in cui parto alla scoperta o riscoperta di libri da portarmi dietro. Si guarda in casa, si cerca in libreria. “Ma guarda, è un po’ che non lo leggo” mi dico trovandomi tra le mani un libretto leggero, almeno come peso, che da tempo avevo dimenticato di possedere. Si tratta de Le Avventure del Barone di Münchausen di Gottfried August Bürger. Lo prendo o lo lascio? Nel dubbio, mi arriva un suggerimento:
“Ho letto questo libro almeno quattro o cinque volte... E’ stato un incontro fortunato e a distanza di anni ogni volta che lo rileggo continua a mandarmi messaggi nuovi. L’approccio interdisciplinare ci rimanda contributi che vanno dalla psicoterapia, alla filosofia, alla psichiatria, ala cibernetica. Il filo rosso del libro è il cambio di prospettiva, è la ricerca basata sul riconoscere nel “qui ed ora” le configurazioni ed interazioni che producono e mantengono i problemi, abbandonando la strada della domanda “Perché” e quindi di cause determinanti nel passato delle persone, sostituendo invece questa domanda con una più costruttiva attenzione alle dinamiche ed ai contesti relazionali attuali”. La voce è quella di Paul Watzlawick, uno dei padri fondatori dell’approccio sistemico – relazionale, che allo stravagante barone ha dedicato il libro Il codino del barone di Münchausen. Ovvero Psicoterapia e “verità” edito in Italia da Feltrinelli.
La sua voce mi è sempre grata perché se sono approdata al Centro Studi e Applicazione della Psicoterapia Relazionale, lo devo anche alla lettura peraltro casuale di uno dei suoi bestseller. Di tante decisioni prese nella vita, professionale e non, quella di entrare nella scuola di Prato è stata una delle più felici e soddisfacenti, tanto che il legame si è mantenuto, anzi è andato rinsaldandosi con il tempo.
Allora via, portiamocelo dietro il libretto, visto che i consigli di Watzlawick mi portano bene; certo troverò nuovi spunti per le psicoterapie, mi sono detta, ma non immaginavo che si arrivasse ad offrire suggerimenti per migliorare anche l’autostima. Quando cade in una fossa piena di melma insieme al cavallo ed è lì lì per affogare, il nostro barone non si perde d’animo ma riesce, attaccandosi al proprio codino, a saltare fuori e galoppare via, sporco ma illeso. In fondo qui si parla anche di autostima, sebbene in maniera allegorica e certo sopra le righe. Dal racconto si evince che la percezione del proprio valore, sebbene si sviluppi durante la crescita, attraverso le esperienze di vita, i successi ed i fallimenti, le ripulse ed i consensi, per raggiungere adeguati livelli deve poggiare su una identità solida tale da potersi inserire in un contesto narrativo dai confini più ampi del piccolo orizzonte personale. Ed anche questa è psicoterapia.
Pur rimanendo dubbiosa che, se fossi io a trovarmi con un leone infuriato davanti ed un coccodrillo famelico dietro, un fiume impetuoso a sinistra ed un baratro pieno di serpenti velenosi a destra, riuscirei a cavarmela, mi dà una certa consolazione il pensiero che i miei maestri, presenti e virtuali, ce l’hanno messa tutta per darmi gli strumenti per farlo, anche con i compiti per le vacanze.

domenica 29 aprile 2018

Uno psicologo del lavoro.. sistemico relazionale!

 di Leonardo Frizzi, psicologo psicoterapeuta.



Il mio sogno era diventare psicoterapeuta. Per questo cercai il training in psicoterapia. All’epoca lavoravo nell’azienda di famiglia come operaio, mio padre aveva un’antica concezione della famiglia e del lavoro. I figli dovevano lavorare di più degli operai e guadagnare di meno. Grande rispetto per questi principi ma la mia vita era dura.
Iniziai il training in psicoterapia alla CSAPR ritagliandomi lo spazio dal lavoro, ero uscito da poco da una serie di tirocini nei sert delle ASL fiorentine e dal centro per la cura e riabilitazione dell’alcolismo, sempre in alternanza al lavoro in azienda, correndo di qua e di là.
Per me il training era il coronamento di un sogno, lo spazio franco dove iniziare una nuova vita. Era il primo training organizzato a Prato dal CSAPR.
Gli orari si conciliavano male con il lavoro, cercavo disperatamente qualcosa da fare come psicologo, qualcosa che mi permettesse di lasciare il lavoro in famiglia.
Trovai un’inserzione sui quotidiani: “ cercasi psicologo”!! incredibile per l’epoca.
Mi presento una mattina e trovo il luogo pieno zeppo di candidati, pieno zeppo di psicologi, normale visto le poche occasioni che c’erano.
Parlano con tutti singolarmente ma poi ci riuniscono e ci chiedono di progettare un corso di vendita ( si trattava di formare nuovi venditori di mobili, per di più giovani architetti), spiegandoci che il miglior progetto avrebbe avuto il lavoro.
Ero al secondo anno di training ed avevo appena conosciuto le rege delle comunicazione, ero entusiasta di PAUL WATSLAVICH. La sera nei dopocena mi misi a pensare a questo corso di vendita. Mi resi conto che non avrei saputo cosa dire sulla vendita ma molto su come comunicare correttamente, pensavo che chi comunica bene convince e chi convince può vendere bene. Progettai quindi un corso sulla comunicazione e lo consegnai all’azienda.
Venni convocato una settimana dopo, mi aspettavo la solita ressa ed invece con stupore mi accorsi di essere solo io. Mi dissero che il mio lavoro era estremamente innovativo, mai visto una cosa del genere e vollero che facessi il corso a loro! Ero terrorizzato ma lo feci.
Venni scelto come formatore e selezionatore, l’azienda si occupava di selezione e formazione del personale per le aziende fiorentine. Naturalmente niente assunzione, solo percentuali sul venduto, ma avevo raggiunto lo scopo, potevo fare lo Psicologo!! Quest’inizio mi ha permesso poi ( essendo cercato) di lavorare nell’azienda di consulenza organizzativa e di selezione e formazione più prestigiosa della toscana ed ho da allora collaborato con tutte le più grandi aziende dell’italia centrale e non solo prima per selezione e formazione e poi per la consulenza organizzativa.
Il traing CSAPR mi ha permesso di fare formazione ai più alti dirigenti d’azienda che hanno bisogno tutt’oggi come il pane delle nostre strategie relazionali e soprattutto di vedere le loro organizzazioni in un’ottica sistemica, cosa che gli cambia la vita e li rende estremamente più capaci ed efficaci nel loro lavoro. Sono poi diventato anche psicoterapeuta e continuo tutt’oggi la doppia professione di psicologo d’organizzazione e psicoterapeuta . La Scuola di Psicoterapia Sistemica e Relazionale mi ha permesso di conseguire il mio obiettivo.

giovedì 22 marzo 2018

Infanzia e approccio sistemico relazionale.


di Letizia Tinacci, psicologa psicoterapeuta. 


Il settore dove ho applicato i miei primi rudimenti di psicologia relazionale è stato il mondo dell’infanzia. All'inizio della specializzazione presso il C.S.A.P.R, infatti, gestivo, con la cooperativa che avevo fondato, spazi gioco e ludoteche per conto di enti pubblici. 
Ogni pomeriggio accoglievo una ventina di bambini 0-3 anni, con le loro famiglie; ogni pomeriggio, dovevo avere chiari gli obbiettivi del servizio, ascoltare i bisogni dei piccoli e degli adulti che li accompagnavano, gestire le dinamiche di gruppo, quelle con i colleghi e quelle con i committenti. E’ stata la palestra relazionale più importante della mia vita, una “doccia fredda sistemica” che mi ha obbligato a tener conto di tutti, escludendo per necessità ( e magari neanche con tanta consapevolezza!) una visione lineare della realtà, che mi avrebbe suggerito una relazione esclusiva con i bambini, tralasciando le altre preziosissime parti in gioco.
Successivamente ho avuto un incarico di psicologa al Centro Affidi..stavolta potevo appoggiarmi alla pregressa esperienza, ma la posta in gioco era ancora più alta ed il livello di complessità era maggiore. L’obbiettivo era il benessere del minore e proprio per questo non potevo prescindere dalla rete di relazioni significative a cui apparteneva: la famiglia d’origine e quella affidataria, il suo contesto scolastico e sociale, i Servizi di riferimento.
In parallelo non potevo perdere di vista me stessa, la relazione con il bambino, quelle con i colleghi e con i miei committenti, le aspettative legate al ruolo.
 Di nuovo la psicologia relazionale si é rivelata preziosa: al passo con i cambiamenti repentini di questo momento storico e con la necessità di adattarsi ai diversi contesti, relativamente breve e molto efficace anche su un piano concreto.
Da allora non ne faccio più a meno, sono una "relazionale-addict " convinta!

martedì 6 marzo 2018

LA PORTA APERTA Il ruolo del teatro nella mia esperienza didattica e clinica.

di Marco Venturelli, psicologo psicoterapeuta.

Le mie esperienze in campo teatrale sono state un elemento importante della mia crescita personale e professionale. Negli anni successivi la scelta di diventare psicoterapeuta e didatta mi ha stimolato e incoraggiato ad esplorare le connessioni tra la psicoterapia e quella parte del teatro di ricerca la cui essenza si fonda sulla relazione che si crea tra attore e spettatore nel tempo presente e nello spazio in cui l'evento teatrale ha luogo.
Un teatro vivo, in cui “recitare” non vuol dire “far finta”, ma essere presenti in quel momento, attenti nel qui e ora, senza smanie di protagonismo o inutili esibizioni di abilità tecniche, coltivando una costante attenzione rivolta a sé e all’altro.

Nel mio lavoro di terapeuta e di didatta in alcuni casi utilizzo la “lente” del teatro. Nella didattica in particolare, questo si traduce nell’utilizzazione di esercizi esperienziali per lavorare e riflettere sulla persona dell’allievo, un’opportunità aggiuntiva che può contribuire ad affinare e potenziare aspetti personali/stilistici del futuro terapeuta. Nel corso degli anni le necessità formative emergenti dalla relazione con gli allievi mi hanno stimolato a creare nuovi esercizi.

Mi piace immaginare la formazione e per certi versi anche l’attività clinica, come la situazione di chi apprende l’arte di diventare funambolo: è responsabilità del funambolo più esperto utilizzare tutti gli accorgimenti possibili per insegnare all’altro a stare in equilibrio, mentre è compito dell’allievo utilizzare al meglio il proprio desiderio di apprendere…in fondo entrambi camminano sulla stessa fune!

Dr. Marco Venturelli, Psicoterapeuta, Didatta C.S.A.P.R.


lunedì 19 febbraio 2018

Kurt Cobain: storia della voce di un’infanzia infelice

di Giuseppe Roberto Troisi, psicologo psicoterapeuta. 


Un Bambino vivace
20 febbraio 1967 ad Aberdeen (stato di Washington -USA). Kurt Cobain nasce in pieno boom economico in una cittadina in crescita nell’industria del legname, nel profondo nord della costa del pacifico. La madre riferisce di essersi sposata senza particolare convinzione, giusto per “lasciarsi i problemi alle spalle!”. Kurt è il primo figlio, nonché primo nipote della sua famiglia: “era un bambino magnetico” dice orgogliosa la mamma.
In effetti i video amatoriali della prima infanzia di Kurt mostrano un bel bambino vivace e intelligente. Ama disegnare e i suoi disegni sono formalmente corretti e adeguati alla sua età, vivaci nei colori. Sapeva intere battute della sua trasmissione preferita. Insomma un quadro ben lontano da quella di un bambino con Disturbo da Deficit dell’Attenzione.
La madre intende fare un altro figlio e pensa che “deve far calmare un po’ questo bambino”. Così lo porta dal pediatra il quale lo sottopone al “test dei movimenti oculari” con la torcia e dichiara: abbiamo un problema!” e prescrive il Ritalin al piccolo Kurt.

Il Ritalin: una pillola per ogni problema
Si rimane sgomenti ad ascoltare una descrizione così infelice di una “diagnosi” complessa e pesante e la facilità con cui viene somministrato uno psicofarmaco tanto potente in età pediatrica.
La madre descrive il piccolo come “impazzito” ogni volta che la sera gli somministrava il farmaco, in realtà un potente eccitante. Quanto questo possa aver influito sulla vita di questo bambino non lo possiamo sapere. Tuttavia, in un’intervista Kurt dichiara che con quell’esperienza ha imparato che le emozioni potevano essere regolate con i farmaci e che quindi tanto valeva prendere l’antidolorifico più potente e divertente: l’eroina! Questa sarà la sua compagna per il resto della sua vita.
Nessuno invece sembra interessarsi dello sviluppo di questo intelligente e bel bambino: “Il padre prendeva in giro e umiliava il figlio!” dice la madre. Intervistato a sua volta, questi ammette di aver fatto molti sbagli col figlio. Una delle prime frasi che Kurt scrive sul muro di casa è "my mum hates my dad and my dad hates my mum”. All’età di 9 anni la mamma decide di divorziare!

Senza famiglia: vivere la solitudine
La reazione di Kurt è di ribellarsi: la madre contrasta il figlio finché un giorno decide di portarlo dal padre. Nessuna domanda sulla sua ribellione, sofferenza o necessità di dare un senso a questa esperienza. Come un pacchetto viene “lasciato” (“scaricato” dirà lui in seguito) dal padre che, nel frattempo, dopo aver promesso di stare sempre solo con lui, si era risposato con una donna madre di altri figli. Un’altra delusione. Nella famiglia ricomposta, Kurt non riesce a trovare un proprio spazio. La sua ribellione continua inascoltata finché inizia a richiudersi nella propria stanza, in compagnia della sola chitarra.
Inizia un periodo in cui Kurt gira da una casa all’altra: nonni, zii, di nuovo il padre, poi la madre “dopo un paio di settimane tutti volevano cacciarlo!” dichiarerà la compagna del padre, poi aggiunge: “in realtà lui sembrava volere solo la madre!”
I suoi diari con scritti e disegni sono estremamente chiari su questa sua sofferenza. Kurt sente che tutta la famiglia lo rifiuta. A 14 anni il padre definitivamente “lo scarica davanti casa della madre” (parole di Kurt). In quel periodo inizia a consumare marijuana grazie alla quale “si interrompono le sue crisi di nervi!”
Kurt definisce quel periodo “il culmine dell’abuso mentale da parte di mia madre”.


Scacciare il dolore del trauma
Insieme agli amici inizia a fare consumo di superalcolici. Compaiono i pensieri suicidi. Un episodio sembra cruciale ed emblematico: Kurt insieme agli amici frequentava una ragazza con un ritardo mentale a cui rubavano gli alcolici. Un giorno va da lei e le propone di fare sesso, lei inizia a spogliarsi e lui le chiede se lo aveva già fatto. “Si, numerose volte con mio cugino!”
L’ammissione della ragazza lo fa stare male: sente l’odore della sua pelle e “della sua vagina” e scappa da quella casa. Tuttavia nei giorni successivi gli amici iniziano a far girare pettegolezzi su di lui e questa ragazzina e diventa oggetto di scherno e umiliazione. Deluso da tutti si siede sui binari del treno delle 23 aspettando di morire; fortunatamente sbaglia binario e il treno passa accanto (Kurt sostiene che il treno aveva preso uno scambio diverso dal solito). Lo usa come momento per cercare di rimettersi in piedi anche se il suo senso di odio, vergogna e solitudine non si placa, inascoltato. “Ero introverso, solitario” “Mi sentivo così diverso e folle che la gente mi evitava!” scrive.


Dal Punk-Rock al Grunge: esprimere le emozioni con la musica
E’ così che incontra il punk-rock che riesce a interpretare, raccontare ed esprimere i suoi sentimenti inespressi. Mette su una band e suonavano tutti i giorni un paio d’ore dovunque capitava, anche in piccoli garage, come dichiara Krist Novoselic, amico e compagno di band.
In una di questi “concerti” incontra Tracy Marander che se ne innamora e lei lo “alleva” come fidanzato e come figlio. Diventa un punto di riferimento, una risorsa emotiva e relazionale. Crede in lui e gli fornisce calore, una casa e fiducia nelle sue possibilità musicali: “Non aveva difficoltà ad accettare l’amore, ma aveva paura di restare ferito!”
Queste brevi frasi sembrano dirci più del DSM 5 (manuale di psichiatria): odio, vergogna, paura sembrano essere le emozioni chiave per descrivere la vita emotiva del giovane Kurt.
La parola vergogna (shame) ricorre spesso nelle sue canzoni insieme a paura (scare) come nel pezzo "Floyd the barber"

Dice Loredana Lubrano (cantante e vocal coatch) riguardo la modalità di emissione nella parola “Shame” di questa canzone: “Ogni ‘messa in voce’ sembra che parta come un sospiro e poi si evolve in un lungo urlo squarciante. C’è una drammaticità viscerale in ogni “Shame”: sembra infatti che questa parola diventi urlo solo dopo aver attraversato tutto il corpo, partendo dalle viscere fino all’apparato vocale. Dal respiro all’urlo. La costrizione che l’aria incontra in laringe e nel vocal tract sembra non muti mai ad ogni ripetizione del testo, nel rispetto e nella coerenza con il suo significato e cioè quello della “vergogna”.
Anche nei suoi diari la rabbia esplosiva e splatter emerge in modo imponente, così come alcuni tratti persecutori, per esempio i riferimenti a neonati che diventano assassini dei genitori: “your parents are afraid of you”. Non a caso nella copertina di “Nevermind” compare un neonato immerso nell’acqua. L’ossessione per la nascita ritorna nuovamente con il titolo del terzo album “In Utero”.
Colpiscono alcune frasi sul suo diario scritte in modo estremamente meticoloso e chiaro, al contrario di altre parti completamente caotiche:
  • il punk rock significa libertà
  • sono pienamente cosciente della sincerità della mia voce
  • amo i miei genitori ma non accetto ciò che essi rappresentano
  • le mie emozioni sono influenzate dalla musica
  • uso pezzi della personalità degli altri per formare la mia
  • sono minacciato dal ridicolo

Sono pienamente cosciente della sincerità della mia voce!”: ascoltare il trauma
Come non concordare con questa breve ma definitiva affermazione: Cobain suona e canta e quando canta usa tutto il corpo per esprimere un disagio antico e inascoltato, che oggi potremmo definire “disturbo traumatico dello sviluppo” (Van der Kolk, 2015).
Storie infantili con uno sviluppo traumatico interferiscono con le funzioni integratrici di memoria e coscienza per arrivare a manifestare sintomi dissociativi (Liotti e Farina, 2011).
Laver subito, durante linfanzia, esperienze relazionali traumatiche altera la formazione dei neuroni specchio; ciò significa alterare la capacità d’integrazione interpersonale, ovvero, le sue capacità di vivere le relazioni in modo stabile e continuativo.
Le esperienze di insicurezza, umiliazione, oscillazione dell’umore da parte della persona di attaccamento primario (la madre e il padre) tendono a sviluppare il cosiddetto “atteggiamento conservativo”, cioè la tendenza a interpretare le situazioni neutre come situazioni potenzialmente pericolose da cui bisogna difendersi. In qualsiasi modo. Magari con delle pistole come in “Come as you are” dove il ritornello “memoria, memoria, memoria” sembra alludere a qualcosa che non si riesce a dimenticare e che ritorna continuamente alla mente, nonostante gli sforzi per farlo (il flashback).

Le memorie traumatiche infatti restano come congelate, impossibili da integrare. La Teoria polivagale di Porges spiega come i traumi ripetuti, la presenza costante della minaccia di abbandono, attiva continuamente i sistemi dei gangli di base connessi alle reazioni del sistema nervoso autonomo e questa iperattivazione continua impedisce, di fatto, l’integrazione delle relazioni, delle immagini e dei ricordi; questi riemergono così sotto forma di sensazioni corporee, suoni, movimenti e immagini intrusive, impossibili da controllare.
La vita rimane scissa, divisa fra la parte che tenta di adattarsi e andare avanti e quella terrorizzata, minacciata, inadeguata, che cerca solo di proteggersi con l’attacco, la fuga o il congelamento. Quando lo stimolo esterno o interno riattiva il senso di minaccia il corpo si dissocia.

La voce del trauma
Cosa possiamo trovare di tutto questo nella voce e nella musica dei Nirvana, ovvero di Kurt Cobain? Come definire il Grunge?
I brani sono spesso inizialmente oscuri, ipnotici, fatti di strofe dove la voce appare sofferta, per poi sfociare in rabbiosi ritornelli urlati. La tradizionale forma-canzone "strofa-ritornello-strofa" (tra l'altro omaggiata/criticata spesso dal leader dei Nirvana Kurt Cobain) è assunta a schema privilegiato di un genere che punta direttamente al sodo, eliminando troppi fronzoli e tecnicismi.” (tratto da wikipedia)
Osservare i concerti dei Nirvana significa osservare salti continui, sul piano musicale e vocale. Le chitarre spezzate si accompagnano a momenti quasi intimistici. Dove sta il ragazzo timido, osservando la star che suona in modo energico, intrattenendo folle di adolescenti che si spingono e saltano uno addosso all’altro?
C’è una famosa scena, che non a caso apre il bellissimo docufilm “Cobain” diretto da Brett Morgen, in cui Kurt sale sul palco spinto su una carrozzella, si alza e poi casca, come se veramente fosse un paraplegico e rimane disteso come morto. L’inquadratura dall’alto lo mostra come il cadavere nella scena di un delitto.

La vergogna e l’odio sembrano le emozioni che accompagnano costantemente l’infanzia e l’adolescenza di Kurt.
Il Trauma Complesso comporta una continua oscillazione fra il tentativo di nascondere i (presunti) motivi di cui ci si vergogna e la difficoltà a credere nelle proprie risorse anche quando queste sono presenti e palesi.
La sorella dichiara: “Il cervello di Kurt era sempre in funzione. Pensava sempre a qualcosa.”
La mamma: “Forse faceva fatica ad accettare i complimenti”; “il suo obiettivo era essere il più perfetto possibile”, in tutto. Un perfezionista deluso di sè stesso, alla ricerca di accettazione ma diffidente verso l’accoglienza e l’amore (come accadrà con la moglie).
La madre di Kurt fu profetica quando, dopo aver sentito il master di “nervermind”, avverte il figlio: “mettiti le cinture perché tu non sei pronto a questo”, alludendo che la genialità del musicista non era supportata dalla capacità emotiva di sostenerla.
La breve ma intensissima storia d’amore con Courtney Love, di cui nel film sono presenti numerosi video familiari, esprime bene questa difficoltà nel reggere la stabilità relazionale, in un vissuto che non riesce a uscire dal dramma.
L’ultima apparizione in tv avvenne in Italia nella trasmissione della Dandini “Tunnel” (23/02/1994).

La voce esprime rabbia, ma anche senso di disgusto, quasi vomito. E’ una voce debole, poco sostenuta. I Nirvana sono a Roma e Cobain è accompagnato dalla moglie Courtney Love che sembra stanca degli sbalzi d’umore di Kurt. Sta pensando se lasciarlo e lui tenta un altro suicidio. Questa volta a salvarlo è proprio lei, ma solo per poco. Il 5 aprile a Seattle riesce a concludere la sua vita.

Si può superare il trauma?
In tutta questa storia non si trova mai un riferimento a una risposta alla sua continua richiesta d’aiuto. Non c’è mai un riferimento a uno psicoterapeuta: come se il dolore potesse trovare risposta solo nella chimica: droghe o farmaci che siano. Il misconoscimento del trauma sembra emergere all’improvviso nelle parole dell’amico e compagno di band, il bassista Krist Novoselic, che sgomento risponde al regista “era tutto scritto lì, nei suoi disegni: bastava guardare!”.
Appunto: perché sembra così difficile riconoscere i danni e la sofferenza del trauma? Perché un comportamento che esprime così tanta sofferenza viene così facilmente etichettata come irrecuperabile o come bizzarria caratteriale?
Non possiamo sapere cosa sarebbe successo se qualcuno avesse portato Kurt Cobain in psicoterapia. Soprattutto se nell’infanzia fosse stata data una risposta diversa da quella farmacologica prendendosi cura di una famiglia disorientata e confusa.
La richieste di cura merita sempre di essere ascoltata anche da parte di chi, come gli artisti, nell’arte trova un meraviglioso sfogo espressivo, ma non l’uscita dal disagio. L’arte, qualunque arte, esprime emozioni e idee, da sollievo ma non basta per curare il dolore. Anche gli artisti meritano di vivere più felici e quando chiedono aiuto hanno diritto che gli venga fornito.


Bibliografia e filmografia di riferimento

“Cobain: montage of Heck” Film montato e diretto da Brett Morgen
Van der Kolk (2015) Il corpo accusa il colpo MIlano Cortina
Liotti, Farina (2011) Dimensione dissociativa e trauma dello sviluppo Cognitivismo clinico
Cancrini L. (2013) La cura delle infanzie infelici Cortina Milano
Porges S.W. (2014) La Teoria Polivagale: fondamenti neurofisiologici delle emozioni, dellattaccamento, della comunicazione e dellautoregolazione. Roma: Fioriti Editore,
Troisi G.R. (2014). L’uso del corpo in psicoterapia: applicazioni cliniche e prospettive di ricerca fra corpo, emozioni, relazioni e narrazione. http://www.academia.edu/11336144/
Troisi G.R. (2016) La voce la memoria corporea e la relazione in psicoterapia Terapia Familiare, n. 111 Milano: Franco Angeli
Troisi G. R. (2016), Le voci di dentro: trauma, voce e sistemi relazionali interni in Rivista di psicoterapia relazionale n.44 Milano: Franco Angeli


mercoledì 7 febbraio 2018

Lavorare con la coppia

di Francesca Bravi, psicologa psicoterapeuta.


Purtroppo è ancora opinione diffusa che il Modello Sistemico-Relazionale sia valido solo per la terapia con le famiglie. Niente di più sbagliato. Piuttosto è vero il contrario: uno dei motivi per cui prediligere questo approccio rispetto agli altri risiede proprio nella sua straordinaria flessibilità.
Pensare in modo Sistemico significa rilevare collegamenti e mettere in relazione informazioni per costruire una chiara visione d’insieme come base su cui lavorare. I diversi studi condotti negli ultimi 70 anni testimoniano come questa attitudine permetta di affrontare i problemi in modo estremamente efficace, a prescindere dal fatto che si abbia di fronte una famiglia, una coppia o un individuo.
Poniamo, ad esempio, il caso di una terapia di coppia con due persone che abbiano deciso di sposarsi all’età di 20 anni. Banalmente, questa scelta assume connotazioni assai diverse se la moglie racconta di avere alle spalle una famiglia problematica e violenta o un’infanzia agiata, trascorsa fra persone affettuose e protettive.
Analogamente, considerare l’influenza esercitata dalla suocera invadente e criticante, magari con accesso alla casa dei coniugi perché munita di chiavi, è parte irrinunciabile del processo di analisi dei motivi soggiacenti al disagio presentato dalla coppia.
Cogliere questi collegamenti amplifica esponenzialmente la nostra capacità di intervento, perché è proprio su questi collegamenti che possiamo costruire un’appropriata comprensione del problema ed agire in senso risolutivo.
Avere un’approfondita visione d’insieme permette di costruire interventi di straordinaria efficacia, capaci di provocare grandi cambiamenti e abbreviare significativamente i tempi necessari alla risoluzione del problema. Per una terapia di coppia, ad esempio, bastano 10- 12 sedute.

Ne deriva una pratica clinica tanto flessibile quanto potente, che vede nell’arte di “porre in relazione i vari aspetti” la più produttiva commistione fra processi di cura, propri del sapere medico, e quelli di conoscenza, propri del sapere filosofico, capace di dominare pienamente un ambito di studio tanto complesso come quello dell’agire umano.

mercoledì 31 gennaio 2018

Cicli, casi, spirali. Riflessioni sull'evoluzione del concetto di Ciclo di vita

di Valentina Albertini, psicologa psicoterapeuta.


La teoria del ciclo di vita della famiglia e dell'individuo nasce con gli studi di Jay Haley negli anni '70. Haley sosteneva che nel corso della vita ogni famiglia ha dei "compiti" evolutivi da svolgere per passare da una fase alla successiva: dalla coppia al matrimonio, dalla nascita dei figli alla crescita, dallo svincolo all'invecchiamento. Il passaggio da una fase alla successiva comporta grande stress per l'individuo e il sistema; proprio in questi "scalini evolutivi" possono quindi crearsi ostacoli che impediscono la crescita e lo sviluppo, portando alla comparsa di sintomi e difficoltà, sia personali che relazionali. L’uso del concetto del ”ciclo di vita”, molto frequente in psicoterapia sistemico-relazionale, ha consentito fino ad oggi di rappresentare la vita delle persone scomponendola in alcune fasi essenziali, permettendoci di fare diagnosi e interventi a partire proprio dai compiti evolutivi del sistema, o dell'individuo, che chiede la terapia.

Da alcuni anni però sta emergendo una necessità di revisione delle fasi del ciclo di vita pensate da Haley. Queste erano infatti altamente coerenti con la società degli anni '60 e '70, e sono rimaste valide per i decenni successivi. Per un trentenne in quegli anni era infatti abbastanza scontato uscire di casa e trovare un lavoro, sposarsi, avere dei figli, andare in pensione a 60 anni... erano eventi più rari le crisi economiche, le perdite di lavoro, le precarietà, avere più matrimoni, le famiglie ricostituite.


A livello generale, negli ultimi venti anni i mutamenti socio economici hanno portato nuovi fattori di cambiamento dipendenti dalle differenti situazioni. I processi di trasformazione del nostro sistema sociale evidenziano oramai la difficoltà di utilizzare il concetto di ciclo di vita senza rivederne alcuni dei punti teorici di base. Bertin (2013) in una revisione della letteratura esistente, ci segnala l’opportunità di prendere in considerazione altri concetti, fra i quali quello di “corsi di vita”. Tale concetto sostituisce una visione lineare di sviluppo dell’esistenza con una per la quale i cambiamenti sociali che caratterizzano la vita delle persone sono da ricercarsi negli eventi e nelle esperienze che gli individui incontrano nel loro percorso. Questi eventi possono infatti ripresentarsi, e ricostruire le condizioni entro le quali si sono già realizzate le esperienze personali. I rischi, quindi, non sono più specifici delle singole fasi della vita, ma legati ad eventi critici che possono essere ricorsivi e ripresentarsi più volte lungo il corso della vita (ad esempio il quarantenne che perde il lavoro e torna a vivere con i genitori, dovendo ricontrattare spazi di convivenza e autonomia). Simile concetto è quello di “spirali di vita” sviluppato da Combrinck Graham (1985) che teorizza i cambiamenti degli individui come il prodotto delle connessioni tra la vita della persona e gli eventi spesso instabili del contesto sociale ed economico. In quest'ottica le dinamiche familiari presentano un processo a spirale nel quale i "momenti" che ne segnano i cambiamenti (la nascita della coppia, i figli, la loro uscita, la separazione..) si possono presentare più volte nella vita di una persona, implicando la costruzione di nuovi e differenti legami. Questo è un concetto che può essere molto utile in alcuni contesti terapeutici: immaginiamoci un nostro paziente di 50 anni separato con un figlio 25enne che ha appena avuto dei bambini; questo stesso cinquantenne è sposato in seconde nozze con una donna che lo ha reso di nuovo padre. Il nostro ipotetico paziente si trova quindi a vivere, contemporaneamente, due fasi differenti del ciclo di vita. Probabilmente questo racconto sarebbe stato eccezionale negli anni '70, ma nella contemporaneità situazioni come questa rappresentano una buona fetta di realtà, e un terapeuta sistemico relazionale deve farci i conti. Bertin sostiene che questi mutamenti rendono meno stabile la solidarietà intergenerazionale: se questo e vero, ne vedremo a breve gli effetti dentro le stanze di psicoterapia.
Al di là delle geometrie che decidiamo di utilizzare per descrivere le nostre storie, infatti, l'incrocio fra i cambiamenti dei macrosistemi e gli effetti sui microsostemi in cui viviamo possono essere luoghi di grande interesse sistemico, in ambito sia teorico che clinico.


Bertin, G. (2013). Welfare regionale in Italia. Politiche sociali: studi e ricerche.

COMBRINCK-GRAHAM, L. (1985), A Developmental Model for Family Systems. Family Process, 24: 139–150. doi:10.1111/j.1545-5300.1985. 00139.x


domenica 28 gennaio 2018

L’approccio sistemico-relazionale nel lavoro di rete tra il CSAPR di Prato e gli operatori della ASL di Firenze

di Maria Antonietta Gulino, psicologa psicoterapeuta.


Per dirla alla Jay Haley “meglio partire dal più complesso che dal più semplice”.


L’ approccio sistemico-relazionale è decisamente un approccio “multidimensionale”, “multi-topico”, “multi-verso”. Oltre al trattamento clinico di famiglie, coppie e individui, si rivolge alla costruzione di canali comunicativi e alla progettazione di obiettivi clinico-educativi anche in contesti di lavoro altri rispetto al setting tipicamente clinico.
Negli ultimi dieci anni mi sono occupata all’interno del CSAPR di Prato del lavoro di rete con gli operatori della Neuropsichiatria della Asl di Firenze, tra vincoli e possibilità. I vincoli sono quelli relativi alle diverse azioni sanitarie, sociali, educative e psicoterapeutiche che perseguono obiettivi diversi a secondo delle diverse professionalità in campo; le possibilità sono quelle relative ad un modo di operare in rete che sia “integrato” e cioè circolare e reciproco tra le varie figure e tra i diversi interventi.
L’idea di base sta nell’aver messo al centro non solo l’individuo e le sue relazioni significativi ma anche e soprattutto le relazioni che la famiglia in carico ha con i molteplici sistemi di cura, ritenendo che circolarità e scambio efficace tra tutti questi attori ha un’incidenza significativa ai fini della di una prognosi favorevole.
Spesso il focus dell'interesse della famiglia e dei Servizi è il sintomo-problema invece che tutto ciò che il sintomo sottende, quindi dinamiche familiari dolorosamente bloccate che spesso mettono in difficoltà i Servizi, costretti all’invio in Terapia Familiare come “ultima spiaggia”.
La ricerca di un livello “Meta” di condivisione tra i curanti da una parte riduce il rischio molto comune di “rincorrere” o “riproporre” dinamiche sintomatiche ridondanti per cui è previsto spesso assistenzialismo e collusione col contesto che le ha prodotte dall’altra propone in alternativa una matrice di significati nuova, condivisa con i Servizi che hanno in carico i casi.
Attraverso una sinergia di interventi terapeutici, farmacologici, sociali e educativi ( e quindi attraverso riunioni d’equipe, scambi di riflessioni, aggiornamenti attraverso telefonate e mail ) l’obiettivo di un Lavoro di Rete con i Servizi è creare differenze e quindi evoluzione e cambiamento, il tutto nel rispetto dei diversi ruoli professionali pubblici e privati coinvolti (neuropsichiatri infantili, assistenti sociali, educatori, psicologi e psicoterapeuti sistemici).
Gli esiti del lavoro incrociato tra CSAPR, Servizi e famiglie permette di fare alcune riflessioni finali.
Il nostro modus operandi si è basato sulla ricerca di un confronto con gli operatori della Asl e con tutti gli altri sistemi coinvolti per far emergere i punti in comune di una sinergia da condividere e per togliere alle differenze professionali quella componente ansiogena con cui spesso si confronta chi fa questo lavoro. Questo è alla base di una fiducia reciproca e di una collaborazione multiprofessionale.
La conseguenza più evidente è stata una diminuzione della frequenza dei tempi di invio della NPI al nostro Centro Studi: abbiamo spiegato questo fenomeno ipotizzando che un intervento tempestivo e sinergico accorci i tempi “patologici” a carico della famiglia, che a sua volta è a carico dei Servizi.
Mettere in Rete prima e costruire una Rete dopo con la famiglia e con gli enti istituzionali ha permesso di ridurre sterili conflitti, allargare sulle incomprensioni e aggiungere punti di vista.
Il lavoro di équipe del Centro Studi ha assolto alla funzione di “mediatore intersistemico” laddove errori comunicativi e impasse potevano colludere o bloccare il progetto terapeutico dei sistemi curanti.
Si è creato così un clima più disteso in cui la famiglia si è accomodata affidandosi ai professionisti e successivamente puntando sulle proprie risorse familiari. Fare leva su questo piuttosto che evidenziare i limiti e le mancanze del sistema familiare, a nostro parere, è il punto di forza per ottenere il cambiamento e gradi sempre maggiori di salute.
Se la famiglia riesce a percepire il “Sistema Curante” come alleato metterà in campo le sue risorse, si impegnerà per superare le difficoltà e alla fine del processo terapeutico riconoscerà in sé stessa la capacità di uscire dal problema.
Una volta rimosso lo spettro della cronica patologizzazione, la famiglia si vedrà riconosciuta la possibilità di “auto guarirsi”. Ciò alimenterà un circolo virtuoso per cui, superata una crisi, il sistema familiare si sentirà in grado di superarne altre.
In questo modo non è difficile immaginare un guadagno socio-sanitario anche di tipo economico, poiché una sinergia di interventi riduce i tempi di cura e il numero di personale coinvolto interrompendo il circolo della cronicità. E inoltre il cambiamento effettuato e l’apprendimento nuovo che ne deriva riducono la probabilità di ricadute.

Il progetto di lavorare in rete ha avuto queste finalità: aumentare il benessere dell’utenza attraverso ipotesi e strategie di intervento ragionate e aspettative di salute realistiche, creare modalità comunicative efficaci e autotrasformative tra i curanti per uscire dall’idea di assistenza, lavorare più nella direzione della prevenzione che esclusivamente della cura. Del resto nel caso dei servizi di NPI i bambini o gli adolescenti di oggi saranno gli adulti di domani e rispondere al disagio in tempi sempre più brevi e anticipati riduce il rischio dell’espressione di disturbi di personalità da adulti.