sabato 12 novembre 2016

"e di che cosa avete parlato?"

Breve recensione del Libro “Conversazioni sulla psicoterapia” di Luigi Cancrini, Giuseppe Vinci (Alpes Italia, 2013)

di Valentina Albertini, Psicologa Psicoterapeuta



Una volta ho partecipato ad una bella cena fra colleghi, persone che avevano già condiviso un percorso di studi, e al momento condividevano un lavoro, degli obiettivi, un senso comune nel fare le cose. Durante quella cena, come spesso accade, parlammo molto di ”psicocose” e scivolammo pian piano in una conversazione particolare e molto stimolante. Finimmo infatti a parlare del nostro fare terapia, ma anche del nostro diventare, e in parte essere, terapeuti. Come stavamo svolgendo il nostro lavoro, la forza che ci guidava, le paure che ci frenavano. In un’atmosfera di attivo rilassamento, ognuno contribuiva con un pensiero, una riflessione, tutti a loro modo generali ma al contempo essenziali e puntuali. Tornata a casa, ho raccontato quanto fosse stata interessante quella cena, quanto avessi colto da quella conversazione così generale e personale, quanto fosse stato importante trovare uno spazio di riflessione informale così arricchente. Subito, è arrivata la domanda “di che cosa avete parlato?”. E io non ho saputo rispondere. Perché in quella cena avevamo parlato davvero del nostro piccolo tutto, ma dire “di tutto” era troppo squalificante perché sembrava un modo diverso di dire “di niente”, e non era così. Però mettersi a spiegare di cosa avevamo parlato voleva dire ripetere tutta la cena, perché ogni frase era stata importante e il riassunto sembrava una banale riduzione e non avrebbe reso onore alla serata.

Ecco la difficoltà di trasmettere i contenuti di una bella conversazione. La stessa difficoltà la incontro adesso a scrivere una recensione del libro “Conversazioni sulla psicoterapia” (di Luigi Cancrini e Giuseppe Vinci, Editore Alpes Italia, 2013). Si tratta di  una lettura allo stesso tempo scorrevole e complessa, aggettivi che secondo me sono difficili da affiancare quando parliamo di testi professionali. Gli autori sviluppano il testo come una reale conversazione, una discussione fluida in cui uno propone un argomento e l’altro offre il proprio punto di vista, e viceversa, in uno scambio continuo e articolato. Un punto di vista fatto di conoscenza professionale, di esperienza lavorativa, di studio, ma anche di vita e di esperienze personali. Non è un libro su come si fa terapia: è un libro su cosa vuol dire essere terapeuti.

Cancrini e Vinci ci fanno entrare nella loro conversazione e ci parlano di cosa significhi oggi fare la nostra professione, di come si può diventare un buon terapeuta, di come questo lavoro si inserisca in maniera strutturale nella storia personale e quindi dello sviluppo di quella stessa storia sia in parte responsabile.

Riflettono insieme su cosa sia il cambiamento e su quanto sia difficile aiutare le persone a cambiare, cambiando allo stesso tempo noi stessi. Si interrogano sulla difficile relazione fra psicoterapia e medicina, e fra psicoterapeuti e medici. Fanno delle riflessioni sul concetto di etica e responsabilità, e poi ci portano nella cruda realtà delle carceri, degli Opg, passando attraverso un percorso storico sulla Legge 180 e sul contributo dato dall’approccio sistemico-relazionale a questo cambiamento, che non si è ancora concluso. Parlano della crisi delle coppie e delle famiglie di oggi, di come sia cambiato l’essere genitori e come questo si rifletta sui figli e sullo sviluppo delle loro personalità. Questo libro è inoltre una conversazione sul nostro essere uomini e donne che attraverso la terapia hanno scelto un lavoro, ma anche una cura. Come dicevo, parla del “nostro tutto”. E questo è veramente lontano dal generico “tutto e niente”.

Durante l’ultimo congresso SIPPR sono rimasta molto colpita da una frase detta da qualcuno (non ricordo chi, e me ne scuso) durante la plenaria di apertura: “non siamo persone eccezionali, ma persone normali che fanno un lavoro eccezionale”. Queste parole le ho accolte come una motivazione e, confesso, con un sospiro di sollievo, perché ci troviamo di fronte alle responsabilità forti che il nostro lavoro comporta, e sapere che puoi permetterti tutta l’umanità che hai (che però, come ci ricordano Vinci e Cancrini, devi conoscere a fondo), è stato un conforto e una nuova spinta.           
Oggi, dopo aver letto “Conversazioni sulla terapia” mi sento ancora più motivata, ma anche più confortata. La strada è lunga, va percorsa un passo alla volta perché durerà tutta la vita.

Per fortuna l’ottica sistemico-relazionale ci obbliga a stare nel mondo e a comprenderne la storia, e i nostri pazienti ogni volta ci insegnano qualcosa. Ma è fondamentale sapere che chi ha più esperienza è lì, pronto a guidarci e aiutarci. Perché noi terapeuti siamo persone normali che hanno avuto maestri eccezionali. Anche se loro non sempre lo sanno. 

Padri di ieri e di oggi in una prospettiva psicologica

di Erica Eisenberg
Psicologa, Psicoterapeuta


Il padre: padrone, periferico, pallido, ricercato…. Sono tanti gli aggettivi collegati in sociologia e in psicologia all’immagine paterna,  in diversi periodi storici. Il padre padrone, erede dell’autorità assoluta di epoca classica. Degli Anni 60 quello periferico, opposto della madre simbiotica degli Anni 70 e 80; quello pallido (Scabini 1985), più presente affettivamente ma meno capace di trasmettere stabilità e quello invano ricercato dai figli come fonte di affetto, ma anche di autorevole sicurezza degli anni successivi al 2000.
 Recalcati identifica la radice della crisi della figura paterna nel fantasma culturale ipermoderno della libertà sganciata dalla responsabilità: di fronte a questo sogno egocentrico, come può sopravvivere la testimonianza paterna, il cui compito è rendere possibile lo sforzo di dare un senso al mondo?  Riprendendo il pensiero di Lacan (2003), che parla di evaporazione del padre nella nostra epoca,  Recalcati (2013) contrappone quattro modelli di figlio ai quattro di padre. 
Il figlio Edipo, abbandonato e ribelle, che non riconosce l’autorità paterna e la combatte attivamente, contestatore negli Anni 60 e 70. Il figlio Anti-Edipo (Deleuze e Guattari 1972), che valorizza il desiderio contro la legge, l’egocentrismo individuale contro la regola sociale, il diritto alla autorealizzazione contro il senso di responsabilità: una figura degli Anni 80. Il figlio Narciso, in un’epoca, gli Anni 90, in cui anziché adattarsi alle leggi simboliche e ai tempi della famiglia e della società l’ idolo-bambino impone alle famiglie di modellarsi intorno al suo capriccio, facendole abdicare ad ogni diritto e dovere educativo. Il figlio Telemaco, che attende il ritorno del padre per liberare la casa dai Proci invasori, ne va alla ricerca e ci si affianca nella cruenta vendetta. Il ritorno del padre Ulisse consente il recupero di un ordine sociale, di una Legge, di una stabilità, di una sicurezza. Per Recalcati i figli oggi sono alla ricerca di un padre così, capace con l’appoggio della madre di trasmettere loro non imposizioni arbitrarie o modelli di disimpegno, ma un senso morale che li aiuti ad essere individui adulti in un mondo incerto.

Padre-mammo e Padre-compagno

Uno studio del gruppo guidato da Robert S. Edelstein, del Dipartimento di Psicologia dell’Università del Michigan, documenta cambiamenti ormonali in gravidanza anche nel maschio, sempre più coinvolto nella preparazione al parto e nella cura del neonato, compiti un tempo riservati alle donne. La futura madre produce più testosterone, cortisolo, estradiolo e progesterone, ormoni che la rendono più protettiva; il futuro padre meno testosterone ed estradiolo, con una riduzione dell’aggressività. Meno violenza da parte dei padri, ma anche meno disponibilità al sacrificio. Meno esempi maschilisti, ma anche minori assunzioni di responsabilità nell'ambito del lavoro e della tutela della famiglia. Al significativo cambiamento dall'immagine tradizionale del padre hanno contribuito l’aumento delle famiglie a doppio reddito e il riconoscimento sociale della donna, che non si identifica più esclusivamente con il modello di madre e di casalinga.
Oggi il padre quasi sempre provvede a fornire cure fisiche ai bambini piccoli, si alterna nell'alimentazione, sostiene le loro attività in età scolare: ci si aspetta che sia capace di fare quello che fa  la madre. Ma è davvero utile e giusto che un bambino abbia due genitori indifferenziati, due mamme poco alternative?
I nuovi padri saranno più affettuosi, più dolci, meno violenti e autoritari, ma molti dubitano che sappiano  ancora trasmettere ai figli una regola sociale, un’etica della responsabilità (Andolfi,2001). C’è il rischio che l’abbattimento dell’autoritarismo porti, in una rincorsa alla libertà sfrenata, anche alla scomparsa dell’autorevolezza, e che i figli delle nuove generazioni restino simpatici compagni dei loro padri  senza sviluppare la capacità di assumersi responsabilità per la propria e l’altrui vita. Se molti di noi non si affiderebbero al capitano di una nave per la sua simpatia e perché gioca con i passeggeri, senza garanzie che in caso di naufragio non abbandoni la nave per primo, perché i giovani dovrebbero trarre altro che pseudosicurezza e delusioni da padri compagnoni che partecipano ai loro giochi ma non sono affidabili al momento della necessità?

http://prevenzione-salute.it/5542/padri-di-ieri-e-di-oggi-in-una-prospettiva-psicologica.html

martedì 8 novembre 2016

Tra fondamentalismo e solipsismo: Beethoven, Goethe, Kundera…e i terapeuti di fronte alla dea senza sorriso.

Gianmarco Manfrida

Psichiatra, Psicologo, Psicoterapeuta


Che cos'è  il fondamentalismo?
Una definizione dal Dizionario di Filosofia Garzanti:
Oggi il termine fondamentalismo si riferisce soprattutto a quelle tendenze emergenti – nel cristianesimo, nell'ebraismo e nell'islamismo – caratterizzate da una reazione contro la modernità. L’accettazione, se pur critica, del processo di secolarizzazione, come gli sforzi del pensiero e della prassi religiosi di dare una risposta nuova agli interrogativi e ai problemi del mondo moderno sono considerati dai fondamentalisti un tradimento del dato rivelato e dunque causa dei mali del presente ”.

E il solipsismo?
Dottrina filosofica che sostiene l’evidenza assoluta, ma anche invalicabile, dell’io individuale (‘solus ipse’) o dei contenuti di coscienza. Ne deriva un idealismo soggettivo che nega la realtà (o la possibilità di dimostrare o attingere la realtà) del mondo esterno e degli altri soggetti.

E che cosa c’entrano queste definizioni contrapponibili (il mondo è come tradizionalmente descritto da altri-il mondo è come lo vediamo noi) con i terapeuti relazionali? Non saranno solo una parola di attualità politico-sociale il primo, una vuota esibizione di cultura il secondo?
Credo proprio di no, e con questo intervento ho intenzione di sostenere che l'antinomia fondamentalismo-relativismo è un elemento costituente di tutte le formazioni e attività psicoterapeutiche.

Inizio con il presentarvi un fondamentalista.    
Come, fondamentalista Beethoven, il genio musicale autore dell’ Inno alla Gioia, simbolo dell’ Unione Europea? Pare incredibile, eppure Beethoven è stato considerato un fondamentalista ai suoi tempi e anche in epoche a noi molto più prossime, naturalmente non nel senso religioso, ma di un personaggio che vuole tener fede con eccessiva rigidità a certi ideali, che considera universali e fondamentali. Ve lo dimostro.

2 Settembre 1812: lettera di Goethe, che ha frequentato Beethoven in un soggiorno nella località termale di Toplitz, all’amico Zelter:
Ho imparato a conoscere Beethoven. Il suo talento mi ha sconvolto; sfortunatamente, però, egli è una personalità del tutto senza freni. Senza dubbio, non ha torto a trovare il mondo detestabile; però, così facendo, non lo rende affatto migliore né per sé né per gli altri. ”

9 agosto 1812: lettera di Beethoven agli editori Breitkopf e Hartel:
A Goethe garba troppo l’aria di corte, più che a un poeta non si convenga.

Luglio 1812: lettera, di discussa attribuzione, di Beethoven a Bettina Brentano, fan decisa a legare il suo nome nella storia a quello dei due grandi:
Carissima e buona amica, re e principi possono ben creare dei professori e dei consiglieri segreti e appendere loro titoli e decorazioni, ma non possono creare dei grandi uomini, degli spiriti che si innalzano al di sopra della turba del mondo.... Quando due uomini come Goethe ed io si trovano insieme, questi gran signori debbono rendersi conto di quel che è per noi la grandezza. Ieri Goethe ed io, tornando a casa, incontrammo la famiglia imperiale al completo; la vedemmo venire da lontano e Goethe lasciò il mio braccio per fare ala; ebbi un bel dirgli che non volevo, ma non mi riuscì di farlo muovere. Io allora mi calcai il cappello in testa e col cappotto abbottonato e le braccia conserte continuai il mio cammino. Molte persone del seguito si sono scostate al mio passaggio, l’arciduca Rodolfo si è tolto il cappello, e anche l’Imperatore mi ha salutato per primo. Tutta la processione è sfilata davanti a Goethe che stava col cappello in mano in un profondo inchino. Dopo gli ho dato una lavata di capo, non l’ho scusato: gli ho rimproverato tutti i suoi torti.


1990: Milan Kundera, in “L’immortalità”, riprende questa storia e ne dà una versione
postmoderna, di epoca diffidente per le proposizioni morali e refrattaria ai grandi ideali:
L’ originale di questa lettera, datata 1812, non è mai stato trovato...Ma anche se la lettera era un falso o lo era solo in parte, l’aneddoto affascinò tutti e divenne famoso. E di colpo tutto fu chiaro:…..mentre Beethoven, il ribelle, va avanti con il cappello ben calcato sulla fronte e le mani dietro la schiena, Goethe, il servile, si inchina umilmente al margine del viale.”
   Anche i contemporanei del resto trovavano Beethoven eccentrico e “diverso”.
Da giovane viene così descritto da una pianista: “ Di solito quando veniva da noi faceva prima capolino all'uscio per assicurarsi che non vi fossero persone antipatiche. Era piccolo, massiccio, brutto, pieno di cicatrici di vaiolo, capelli nerissimi, vestito molto comunemente, del tutto privo di quell'accuratezza d’uso nei nostri circoli. Poi parlava un dialetto fortemente renano con espressioni non molto scelte: in complesso nulla, all'esterno, di qualche compitezza, anzi poco gentile nei movimenti e nel contegno.” 

Negli ultimi anni peggiora: “Non picchiare la cuoca, potresti avere delle noie con la polizia”, scrive un amico su un quaderno a Beethoven ormai sordo: altri comportamenti sono altrettanto eccentrici, dalla quantità incredibile e continua di traslochi al tirare le uova andate a male contro i muri di casa al distillare il caffè in un alambicco di vetro al camminare per le strade sporco e trascurato, gesticolando e parlando da solo, all'uscire raramente dal suo alloggio, che il raffinato Rossini descrive con toni di orrore e il cortigiano Cherubini definisce “una tana per gli orsi”. O compone o è indaffarato tra pentole e pentolini, con addosso una vecchia veste da camera, la testa coperta da un berretto da notte e ciuffi di cotone imbevuti d’olio negli orecchi; ma sul tavolo sta sempre un busto di Bruto, l’eroe tirannicida per obbligo morale.

   Il commento di un critico (Mugnaini), a indicare la novità assoluta del compositore: “Se Mozart, non diversamente da Goethe, sembra mettere in una forma le immagini della sua fantasia e inserirle entro schemi compositivi i quali, pur animandosi al contatto di quella viva materia, conservano alcunchè di precostituito e di astratto, Beethoven plasma nella Sonata una nuova forma a immagine e somiglianza dell’idea con cui egli totalmente si identifica.”  Alle idee si deve adeguare la forma, non l’inverso…una derivazione filosofica rivoluzionaria per l’epoca. Prima la sostanza, poi l’espressione…si comprende come le partiture autografe di Beethoven siano piene di correzioni mentre quelle di Mozart quasi perfette, come la composizione sia uno sforzo continuo anche quando si passeggia, con l’idea musicale che viene continuamente scavata e lavorata per trovare l’espressione che la renda, anzi la RENDA, in tutta la sua pregnanza, immediatezza, forza intellettuale ed emotiva. Prima c’è l’idea, il resto segue; come per Kant, una passione filosofica di Beethoven, prima ci sono le categorie, poi prendono forma i pensieri.

Da dove viene questo orgoglioso bisogno di coerenza?
Nel 1801 Beethoven è affermato, come scrive all'amico medico Wegeler:
Le mie composizioni mi rendono molto…non si discute più con me: io chiedo e mi si paga…” Nella stessa lettera appare però una preoccupazione: “Un demone invidioso, la mia cattiva salute, mi ha gettato una mala pietra tra i piedi; voglio dire che da tre anni il mio udito si è fatto sempre più debole…le mie orecchie ronzano e rombano di continuo giorno e notte. Conduco una vita di miseria; da quasi due anni evito ogni compagnia, perché non mi è possibile dire alla gente: sono sordo. Se avessi qualche altra professione, la cosa sarebbe più facile, ma con la mia professione questa è una condizione terribile! Ora, cosa accadrà, lo sa il Cielo”. 

Del 1802 è una profonda crisi testimoniata da una lettera ai fratelli in cui possono anche adombrarsi idee di suicidio: il famoso Testamento di Heiligenstadt.
   In realtà Beethoven non è rassegnato, e questa lettera resta in un cassetto segreto dello scrittoio fino all'indomani della morte, il 23 marzo 1827. Da questi anni di crisi, testimoniati anche da una riduzione della produzione, Beethoven esce appigliandosi alla filosofia Kantiana: l’uomo deve superare se stesso, deve andare al di là dei propri limiti, non disperdersi nella quotidianità superficiale (per lui del resto impossibile) ma concentrarsi sul raggiungimento di una meta ideale, che per lui è una produzione artistica capace di trasmettere il valore di un’idea filosofica romantica di fratellanza e di pace universale. Con espressioni diverse, dall'intimo allo spettacolare, e con mezzi formali diversi, Beethoven si impone di testimoniare moralmente il dovere di trascendere i propri limiti a livello individuale e universale del genere umano. Tutto quel che fa si collega all'idea di avere una missione da compiere, e questa idea lo rende anche ostinato, dogmatico con il nipote, lamentoso e litigioso, autorizza anche i suoi scoppi d’ira: si può ben essere misantropi per troppo amore dell’umanità! E vivere in una tana da orsi se quel che conta è lo spirito e quel che si produce; e avere il diritto di tenersi il cappello in testa di fronte all'imperatore per punto di impegno, invece di comportarsi civilmente come Goethe, che non ha tanta necessità di coerenza tra moralità personale e una professione di fede nel superamento dei limiti, nel Faust, simile a quella di Beethoven.

E’ per questo aspetto “ideologico” intransigente e per il mito che vi si crea intorno, ma che non è infondato, per la presenza del suo busto come ispiratore ideologico sul pianoforte di Schroeder nei Peanuts, che Beethoven attraversa periodi storici in cui è antipatico: a Kundera, ad esempio, ma anche ad Auric, Janacek e Ravel che nel primo dopoguerra espressero ciascuno a modo suo pesanti considerazioni sui significati extramusicali della sua musica, accusandolo di aver coperto le deficienze sul piano  compositivo con una immagine di rivoluzionario impegnato.  Forse è il mondo che alterna tra leggero e pesante, tra vivere quotidiano e ideale, e in genere ai periodi di impegno seguono altri di disimpegno: Ravel e gli altri parlavano nel 1922, dopo la prima guerra mondiale, e oggi Beethoven sconta i successi degli anni ’70, dominio delle interpretazioni ideologizzate, con nuove filologicamente perfette nella forma e inconsistenti nella sostanza, il contrario di quel che desiderava l’autore.

   Goethe, Kundera, Ravel ecc. sono dunque dei codardi rinunciatari? No, sono persone che non si danno troppa importanza, realisti che ne hanno viste tante da essere divenuti diffidenti di fronte alle pretese di cambiare il mondo. Pensano che ognuno ha il suo punto di vista, che si può dire quel che si pensa senza sentirsi obbligati ad esserne sempre all’altezza, che essere educati è già qualcosa e levarsi (o mettersi) un cappello non è poi una tragedia morale, che non far male è già molto, far bene ad altri difficile, rischioso e un po’ presuntuoso. Non saranno solipsisti, ma certo non sentono il bisogno di Beethoven di trovare un senso alla vita per superare il dolore. Una necessità che però noi troviamo nei nostri pazienti, e che ci costringe a prenderci carico spesso non solo dei loro sintomi, ma delle loro vite.

   Eccoci finalmente al dilemma del terapeuta: essere un sospetto fondamentalista, che tenta di trasmettere dei punti di vista propri e dei valori che ritiene validi in generale e utili nel caso specifico, o un distaccato solipsista, convinto che non è possibile, certo non corretto, convincere altri a cambiare le proprie idee, e che al massimo può essere legittima la  curiosità? La terapia è sempre possibile ed il suo successo responsabilità del terapeuta, come diceva da fondamentalista Don Jackson negli anni ’60, o è solo conversazione da cui ci si augura emerga, per puri motivi interni al sistema familiare e indipendenti dal terapeuta, un qualche imprevedibile cambiamento positivo? Riconosciamo nella prima posizione quella di un modernismo fiducioso nella razionalità e nell’impegno umano, ansioso di superare rapidamente i limiti delle situazioni, espressione delle origini delle terapie relazionali, la cui bibbia non per nulla è la Pragmatica della Comunicazione Umana con i suoi rigorosi assiomi della comunicazione; nella seconda i dubbi di un solipsismo postmoderno che fornisce maggiori complessità teoriche ma poche tecniche pratiche, dominante come seconda cibernetica, sulla scia delle teorie di Maturana, Varela e Prigogine, dagli anni ’80,
in cui si postula (Goolishian) che è sempre e solo il paziente, individuo o famiglia, l’autore responsabile di qualsiasi eventuale cambiamento.

Anche in psicoanalisi del resto da una iniziale fase trionfalistica, caratterizzata da analisi brevissime e successi clinici eclatanti, si passò dopo alcuni anni a pretese più moderate e ad analisi teoricamente interminabili. Come mai questa oscillazione così frequente in psicoterapia tra onnipotenza e impotenza, responsabilizzazione e deresponsabilizzazione del terapeuta, pretese fondamentaliste e relativismo radicale fino a rischi solipsistici?

Credo che la risposta sia nell'ambito clinico e nella prassi quotidiana: pensare che tutto è possibile o che niente dipende da noi sono maniere equivalenti per sollevarci dal confronto costante caso per caso e minuto per minuto con l’impegno ed i limiti della nostra capacità di curare, cioè cambiare, gli altri. 
Nella realtà di tutti i giorni infatti noi abbiamo un peso, variabile, per chi ci cerca; abbiamo delle capacità di persuasione, di indirizzo, di influenzamento, anche se limitate volta per volta da fattori storici e contestuali aleatori che riguardano i pazienti e noi stessi. Le mie preoccupazioni sentimentali possono, ad esempio, influenzarmi nella capacità di rispondere ai bisogni di attenzione del cliente; la impossibilità di coinvolgere i suoi genitori per qualsiasi motivo, fisico o relazionale, può impedirmi di prendere alcune strade. Non esistono regole generali, fondamenta create da altri su cui appoggiarsi con sicurezza; ma nemmeno vogliamo e possiamo credere che la nostra presenza sia solo una occasione fortuita per il possibile, nemmeno probabile, cambiamento di una inconoscibile e incondivisibile realtà altrui. Siamo costretti lavorando a prendere ogni volta una posizione morale fondata sull'autocritica e sull'assunzione di responsabilità: a porci domande stressanti e logoranti di questo tipo: “Sto facendo tutto quel che posso per queste persone? Riesco a indirizzarle nella direzione che a me pare giusta per loro? Sono sicuro che non sia tale solo per me e che sia una soluzione possibile per loro? Sono certo che questa terapia risponde ai loro interessi prima che ai miei? Lascio comunque a loro l’ultima parola sulle scelte di vita, senza negarmi la parte che ho avuto nel suggerire più o meno esplicitamente altre soluzioni? Ho utilizzato tutte le tecniche a mia disposizione per indirizzarli efficacemente ma non forzatamente dove ritengo che sia meglio per loro? Ho fatto dall'inizio un contratto anche implicito  in cui ho detto come vedevo la situazione e ho ottenuto fiducia e autorizzazione a cambiarla come genericamente concordato insieme?”

Non solo è una gran quantità di domande, ma sono tutte da portarsi dietro costantemente e da aggiornare ogni poco: non per nulla la vera psicoterapia è un mestiere solitario, coraggioso e a rischio di burn-out, e  la rara qualità che colpisce in una personalità terapeutica è la capacità di farsi carico delle situazioni, di essere interessati e di partecipare attivamente ma con rispetto alla vita altrui.
Per lavorare da terapeuti, insomma, ci vuole una grande passione per la responsabilità, che qualcuno può vedere anche come bisogno di sentirsi utili e importanti, che i fondamentalisti possono criticare come eccesso individualistico e i solipsisti come pretesa di onnipotenza, ma che è di grande conforto a chiunque abbia bisogno di aiuto. Se un tubo in casa perde, non cerchiamo il massimo esperto di tubazioni o l’impresa più affermata, ma l’idraulico affidabile che ci garantisce di occuparsene nel modo più rapido ed efficace; e si tratta solo di un tubo, figuriamoci quando i problemi sono di vita e di relazione.

Negli ultimi anni le terapie relazionali stanno tornando alla clinica e sembrano meno ansiose di appoggiarsi a modelli teorici fondamentalisti o radicalmente costruttivisti; non so se l’ultramoderno sarà il prossimo modello ispiratore, ma mi fa piacere il recupero che propone di una dimensione etica pratica, concreta, attualizzata nella vita, e nelle terapie, di tutti i giorni, come pure la proposta di credere in alcuni principi e di agire conseguentemente pur senza prescindere da un realistico relativismo. Spero che questo approccio che ci sfida ad accettare i nostri limiti  ed evitare le lusinghe alterne del fondamentalismo e del solipsismo, possa esserci di aiuto per conquistare, come dice Nikos Katzantzakis,  “quel potere dell’anima che non si degna di ingannare se stessi o altri ed ha sempre il coraggio di guardare in viso la Dea che non concede favori e non siede ai piedi di nessuno, la dea senza sorriso: Responsabilità"









Fantastici discepoli e magici maestri: piccola guida bibliografica alle principali scuole fantasy

Gianmarco Manfrida


Per gli allievi ed ex-allievi insoddisfatti e dubbiosi che cercano altri indirizzi, approfondimenti, insegnanti, fornisco una breve rassegna di scuole di magia raccomandate. Naturalmente, il Centro Studi di Prato è gemellato e ha frequenti scambi con queste scuole, con molte delle quali condivide metodi formativi e libri di incantesimi.

Da  “Il mago”,  di U.K. Le Guin:

-         Signore, tutti questi incantesimi si somigliano: quando ne conosci uno li conosci tutti. E appena cessa la tessitura dell’ incantesimo, l’ illusione svanisce. Ora, se io trasformo un sassolino in diamante –(e lo fece, con una parola e un brusco movimento del polso)- cosa devo fare perché il diamante rimanga diamante? Come si può bloccare l’ incantesimo della metamorfosi per farlo durare?
     Il maestro delle mani…mormorò una parola, Tolk, e il sassolino tornò a essere un grigio e ruvido frammento di roccia.
-         Questo è un sasso: tolk nella Vera Favella…E’ se stesso. E’ parte del mondo. Con la metamorfosi-illusione puoi farlo sembrare un diamante o una mosca o un occhio o una fiamma…ma è soltanto apparenza. L'illusione inganna i sensi di chi osserva: lo induce a vedere, udire, sentire che l’oggetto è mutato. Ma non muta l'oggetto stesso. Per cambiare questo sasso in gemma, devi mutare il suo vero nome. E far questo, figlio mio, anche ad un così piccolo frammento di mondo, significa cambiare il mondo stesso. Si può fare. In verità si può fare…ma non dovrai cambiare una sola cosa, un solo sassolino o un solo granello di sabbia, se non quando saprai quale bene e quale male deriveranno da quell'atto. Il mondo è in equilibrio. Il potere di trasmutare e di evocare può alterare la stabilità del mondo. Devi seguire la conoscenza e servire la necessità. Accendere una candela è gettare un’ ombra.

Certo che alla scuola di magia di Roke  gli allievi dotati vengono messi subito di fronte alla responsabilità: che cos'è la realtà? L'illusione può anche trasformarsi in cambiamento del mondo? A che prezzo per gli equilibri circostanti? Se nei libri di Fantasy oggi troviamo le storie di formazione, i modelli di crescita che una volta venivano proposti agli adolescenti attraverso i film western o i libri di avventura, quella di Roke è la scuola più ecosistemica di tutte…Non per nulla i problemi per il giovane mago Ged derivano non da draghi streghe e spiriti antichi, ma dall'evocazione per un atto di orgoglio di un’ombra, espressione del proprio narcisistico egocentrismo. Ecco appunto l’ ultimo insegnamento per giovani maghi:

-         Come tutti i ragazzi, tu pensavi che un mago potesse fare qualunque cosa. Un tempo lo pensavo anch'io. Lo pensavamo tutti. E la verità è che quando il vero potere di un uomo cresce e la sua conoscenza si amplia, la via che può percorrere diventa sempre più stretta: finché lui non sceglie più nulla ma fa solo ed esclusivamente ciò che deve fare

Chi si trovasse a disagio in una scuola di tale rigore morale, fondata sul senso di responsabilità individuale, o recalcitrasse di fronte all'impegno di imparare a memoria liste interminabili di veri nomi per conoscere e modificare la realtà, può cercare di farsi ammettere come Harry Potter a qualche corso a Hogwarts: lì le materie da studiare non sono così impegnative, il clima è più rilassato, ampio spazio è dato agli sport…Insomma, un vero college, dove amicizie e doti naturali contano più delle materie di studio. Ogni tanto qualche pericolo da affrontare con generosa abnegazione e superare con coraggio e con l’appoggio degli amici fa da esame per lo studente, per alcune bocciature non ci sono prove di recupero, ma certo l’ambiente studentesco è molto più allegro che a Roke; si mangia meglio, si vola sulle scope, si fanno scherzi ai compagni, si incontrano animali fantastici, si va in vacanza a casa…I maestri non sempre sono all'ltezza, qualcuno poi è proprio maligno, però con dei buoni amici al fianco tutto si può superare e la figura di un preside mago da ammirare e rispettare aiuta, anche se ti mette sempre nei guai e non ti dà molto spago a livello personale. Un po’ per volta il mondo degli adulti si rivela più complesso, più cupo, più triste, e anche i confini tra giusto e ingiusto, bene e male diventano meno distinti, però per allora si spera che gli allievi saranno cresciuti abbastanza da emulare per ascetismo missionario e rigore morale quelli di Roke…

Resta sempre valido anche l’ insegnamento privato individuale: nell'Apprendista del mago, primo volume di una lunga saga di Joseph Delaney solo parzialmente tradotta in italiano, Tom Ward ha tutti i requisiti per diventare mago, essendo settimo figlio di un settimo figlio. Deve però affrontare una lunga formazione vecchio stile come apprendista unico e a tempo strapieno del signor Gregory, senza garanzie sindacali e nemmeno di sopravvivenza se sbaglia ad imprigionare qualcuna delle numerose entità maligne che deve affrontare. Per giunta anche tra gli umani i maghi non sono molto apprezzati: fanno concorrenza alla Chiesa che gli scatena dietro gli inquisitori, suscitano allarme e diffidenza, sono pagati poco e malvolentieri. Se si sbagliano le misure della lapide di pietra per chiudere un malefico boggart in una fossa…ci si lasciano le dita se non la vita; se non si è abili a lanciare catene d’argento e imprigionarle le streghe ti fanno a pezzetti e usano le tue ossa per altri malefici. Quanto alle ragazze…o non ti guardano nemmeno o sono streghe da evitare, riconoscibili per le scarpe a punta! E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno deve pur farlo…e poi non è detto che qualche giovane strega non possa convertirsi per amore…e ci si può procurare una qualche forma di sopravvivenza eterna:
-         Il punto più alto della Contea è segnato dal mistero. Si dice che lassù durante una terribile tempesta sia morto un uomo. Lui solo aveva osato sfidare il male che minacciava il mondo. Poi tornarono i ghiacci. E quando si sciolsero, persino la forma delle montagne e i nomi dei paesi della valle erano cambiati. Ora, sul punto più alto dei rilievi, non rimane traccia di ciò che si compì tanto tempo fa. Ma il suo nome è sopravvissuto. Lo chiamano

                                       WARDSTONE

Beh, dopo una lunga vita, infinite avventure, tanti mostri fatti fuori e qualche strega intrigante accanto, non è poi una così brutta fine…Certo meglio che essere un bastardo reale e ricevere una formazione  non da mago ma da Assassino (L’Assassino del re, di Robin Hobb): vita da cani quella, dietro le quinte del potere, costretti a rinunce mostruose e a subire torture e persecuzioni per il trono dei Lungavista. La magia è intorno, l’ Assassino ne è privo, è solo un indispensabile Catalizzatore di avvenimenti, magici e non…Un ruolo sofferto da “bastardo per bene”, per gente diversa che sogna di essere come tutti ma ha un compito da eseguire, per il quale non c’è da esitare di fronte a nessun sacrificio e a nessuna sofferenza  da subire o da infliggere, per il bene generale. Per coloro a cui piace essere un eroe oscuro, ma determinante…
Può sempre andare peggio: nelle Cronache del Ghiaccio e del Fuoco di George R.R. Martin vi sono molti apprendisti per diversi posti, il più conteso è quello di sovrano di Occidente, ma la concorrenza in questo ambiente feudale e medioevale è feroce, e “Il gioco del trono non lascia scelte: o vinci o muori”…All’ undicesimo volume nessuno ha ancora imparato abbastanza bene né da genitori né da mentori di diverso genere, ma la classe degli studenti si è già sfoltita parecchio. Naturalmente in una saga così vasta si possono cercare altre vie di apprendimento: per la magia, bisogna avere a che fare con i morti, saper cambiare faccia, saper uccidere, sapersi mescolare alla gente normale per carpirne i segreti, saper battere il maestro riconoscendolo anche se temporaneamente ciechi…Non si sa nemmeno se alla fine il diploma sarà da mago o da assassino, che cosa impari lo scopri alla tappa successiva, ma se sei in fuga dal boia della regina o rischi il matrimonio con un sadico in fondo va bene anche così.
Insomma, ci sono scuole più dure del Centro Studi di Prato…e insegnanti più severi del sottoscritto! Potete anche fermarvi qui, e sviluppare la magia con la costante pratica e qualche confronto con colleghi o supervisione con maestri…Voldemort, i boggart, l’ Ombra e le forze del male non prevarranno contro di voi, se non dubiterete e aprirete loro il varco. Forza, maghe, cavalieri e apprendiste/i del Centro Studi di Prato!



Bibliografia

Delaney Joseph, L’ apprendista del Mago, Mondadori, 2004
Delaney Joseph, La maledizione del Mago, Mondadori, 2007
Hobb Robin, L’ apprendista assassino, Fanucci, 2005
Le Guin U.K., Il Mago, Mondadori, 2005
Martin George R.R., Il trono di spade. Le cronache del ghiaccio e del fuoco vol.1-2, Mondadori, 2011
Rowling J.K., Harry Potter e la pietra filosofale, Salani, 1998





L’ Artusi, la nouvelle cuisine e la psicoterapia: conservazione, innovazione e mode in terapia relazionale.

Gianmarco Manfrida

Psichiatra, Psicoterapeuta, Psicologo


Fatta l'Italia, erano da fare gli italiani …e Pellegrino Artusi dette il suo contributo raccogliendo in epoca risorgimentale il primo ricettario nazionale, pieno di ringraziamenti a signore di località esotiche come la Sicilia o di casa come la Romagna, che gli fornivano le ricette su cui costruire una salda identità gastronomica italiana  giunta a noi attraverso nonne e madri. Grazie a lui, l’amatriciana è una ricetta nazionale…e sarde in saor e caponata di melanzane fanno  parte della nostra identità condivisa di italiani, confermata da menù di ristoranti, rubriche di cucina e trasmissioni televisive.

Il modello psicoterapeutico familiare-relazionale- sistemico  è  riconosciuto tra quelli fondamentali in Italia e in molti paesi, ma… non sono sicuro che  il popolo dei terapeuti relazionali si sia effettivamente costituito in una sicura identità. Dice Juan Luis Linares che inizialmente ci unificava una posizione alternativa, iconoclasta, di innovatori del settore psicoterapeutico e della salute mentale, ma che basarsi su una identità rivoluzionaria dopo quaranta anni, con capelli bianchi, pancette e acciacchi vari ci rende preoccupantemente simili  agli irriducibili nostalgici dell’ ideologia comunista, che però almeno la loro rivoluzione l’hanno portata avanti più di noi…
 
 In un numero del 2005 del Psychotherapy Networker (non per niente così ribattezzato nel 2001 dall’ originario  “Family Therapy Networker”), dal titolo “Cosa mai è successo alla terapia familiare?” la risposta viene data  già nel sottotitolo, “la rivoluzione degli anni ’70 rientra nei ranghi”. Peter Fraenkel si interroga sul perché: “Forse la terapia familiare non ha compiuto quel che era il suo obiettivo perché il nostro cliente originario- la famiglia- è oggi sottoposta a pressioni e sconvolgimenti indescrivibili. Forse abbiamo semplicemente percorso un ciclo di vita comune per i movimenti visionari – dalla megalomania iconoclasta alla frammentazione interna alla diffusione culturale. Forse il nostro rendimento è stato inferiore alle promesse. Forse l’ industria farmaceutica ci ha schiacciato. Forse siamo caduti preda dell’ illusione del singolo fattore eziologico,guardando attraverso il buco della serratura al microsistema familiare e  ignorando il potere plasmante di sistemi biologici interni e di attaccamenti infantili precoci.” Il risultato è, come dice nell'editoriale Richard Simon, che la terapia familiare ormai  è  “…solo un’altra specializzazione, né più né meno innovativa di uno qualsiasi dei tanti metodi sul mercato della psicoterapia”, e che Fraenkel dichiara di trovare più partecipanti ai seminari che svolge all'estero che negli Stati Uniti.

   Del resto, con gli antichi romani e il rinascimento sono scomparse anche delle tradizioni gastronomiche, e oggi nessuno va pazzo per le murene annegate nel vino o per i pavoni ripieni.
   In Italia e in Europa la situazione è un po’ diversa; forse le tradizioni sociali meno fondate sulla competizione e l’individualismo, forse l’aggiunta trasformista e gattopardesca dei termini sistemico e relazionale ci hanno preservato dall'estinzione? O stiamo ancora elaborando in modo meno rivoluzionario e appariscente, seppur confuso e disordinato, un ricettario originale?
   Guardiamo un po’ le nostre ricette più famose degli ultimi decenni cercando di valutarne il valore, di distinguere ingredienti fondamentali e tecniche di cottura sperimentate da sovrapposizioni superficiali volte a solleticare il gusto dei clienti e da preparazioni surgelate di facile riproducibilità ma bassa qualità. Il primo passo consiste nello scremare gli ingredienti utili da quelli che si sono sovrapposti per mode momentanee; ma che cosa sono,da dove vengono queste mode che dominano per periodi più o meno lunghi all'interno di gruppi e movimenti di ogni tipo,  non solo di psicoterapeuti, ma anche di farmacologi e di scienziati?
   Racconta Giacomo Casanova  che nel 1750 ebbe occasione di assistere alla cena della regina di Francia, attorniata da un gruppo di nobili: “…accompagnando gli occhi col girar lento del capo …scorse in un istante tutto il circolo, poi fermatasi su un signore…,quello forse al quale solo era a lei conveniente far tanto onore, dissegli in chiara voce: “Io credo, signor Lowendal, che una fricassea di pollo sia il migliore di tutti i cibi”. Egli, avanzatosi di tre passi…,rispose con voce sommessa, serio e guardandola fisso, ma col capo chino: “Tale, maestà, è il mio parere”. Detto questo tornò, tenendosi curvo in punta di piedi e camminando all'indietro, al luogo dove era, e il pranzo si concluse senza che si pronunziasse più parola”. Per il mese successivo, Casanova riferisce di aver sempre trovato, dovunque fosse invitato, fricassea di pollo a pranzo, presentata come un piatto di difficilissima esecuzione e raffinatissima qualità…
   Non tutti hanno la fortuna di assistere così direttamente alla nascita di una moda ed io non sono in grado di precisare quali siano le maestà che le impongono in terapia relazionale. Ricordo però molte ricette che hanno spopolato in certi periodi: il capretto espiatorio, la lingua sistemica, l’uso dello spazio, l’estetica del cambiamento, la prescrizione in salsa paradossale, invariabile o di potere, lo sforzo epistemologico, la differenza di genere, la co-cottura (pardon, costruzione…) della realtà, l’ individualità del terapeuta, il joining e la circolarità…
   Ogni gruppo sociale secondo Berger e Luckmann (1966) si identifica in alcune premesse fondamentali condivise (socializzazione primaria) e in convinzioni più specialisticamente differenziate (socializzazione secondaria), che si mantengono ambedue attraverso il meccanismo interpersonale della conversazione banale  quotidiana; questa tuttavia diviene più esoterica via via che il gruppo di appartenenza é più ristretto e bisognoso di una propria definizione rispetto al resto del mondo. Tra esseri umani  utilizziamo un linguaggio appreso da piccoli e modificato congiuntamente nell’ interazione quotidiana, diretta ma anche legata agli stimoli delle comunicazioni di massa (es. “strambare” sanno tutti cosa vuol dire quando c’è la coppa America…) ; tra militari si usa un linguaggio da caserma , ricordo che quando ero ufficiale il cerotto era lo “spara drappo”; tra militari di cavalleria piuttosto che di fanteria abbondano termini legati alla cura degli equini, sono in uso imprecazioni riferite agli escrementi di cavallo e proverbi tipo “alle donne occorre far sentire gli speroni…”.
    Noi psicoterapeuti abbiamo delle conoscenze condivise che sfuggono alla gente normale, ad esempio la differenza tra psicologi psichiatri psicopedagogisti e psicoanalisti; con i nostri clienti creiamo un linguaggio  ricco di termini come “percorso” , “rapporto di dipendenza” e “vissuto abbandonico”, e riconosciamo dai termini usati il genere delle loro precedenti esperienze terapeutiche; a un livello ancor più specifico, parlando tra noi relazionali, arriviamo alle vette dell’esoterismo  utilizzando un linguaggio tecnico comprensibile quasi solo a noi stessi, in cui fanno capolino (dalle prime righe di un articolo)  “mobilità intersistemiche”, “legami vincoli e relazioni” e “appartenenze diverse sperimentate con il passaggio dalla propria famiglia agli altri sistemi relazionali”.
    Non c’è niente di anomalo o di strano in questa “socializzazione” secondaria del terapeuta, che passa attraverso un lungo e impegnativo periodo di training volto ad acquisire con molti sacrifici un senso di appartenenza e un linguaggio condiviso, SALVO il rischio di perdere capacità di condividere  il linguaggio degli estranei al proprio circolo, diventando un po’ troppo autoreferenziali…magari senza nemmeno accorgersene. A questo rischio  fa da contrappasso quello di vedere il proprio  linguaggio così banalizzato e popolarmente intelligibile (Moscovici, 1988)  da non consentire più una identità del gruppo: forse quello che  è capitato alla terapia familiare negli U.S.A.
   E quale sarebbe allora  la funzione delle mode all’ interno dei gruppi come il nostro? Probabilmente quella , rinnovando periodicamente aspetti del linguaggio esoterico, di mantenere l’ identità del terapeuta, preservandola dalla volgarizzazione… Se si eccede d’altra parte in chiusura e incomprensibilità, attraverso un alternarsi di mode che non lasciano tracce se non nella memoria degli anziani, si perde di rilevanza e si rimane un gruppo ristretto e socialmente poco incisivo.
    Inoltre, le mode possono aprire dialoghi con altri gruppi, creando strutture di sostegno e legittimazione  reciproche: la prima cibernetica con le scienze della comunicazione (parole chiave: doppio legame,capro espiatorio, assiomi della comunicazione,parlare sistemico,funzione del sintomo…), la seconda con i biologi e i costruttivisti (conversazione, co-costruzione della realtà, interazione non istruttiva…), ora anche il termine cibernetica è passato di moda però arrivano  la neurobiologia delle relazioni e i neuroni specchio (il dessert: macedonia con neuroni spicchio?)
   
   Ad inventare mode e sviluppare linguaggi esoterici noi terapeuti relazionali  siamo sempre stati anche troppo bravi, al punto di vivere in una allegra anarchia in cui  tante scuole e sottoscuole parlano idiomi e dialetti non sempre reciprocamente del tutto comprensibili ; se abbiamo peccato, non è stato nel senso di una volgarizzazione e perdita di specificità all’ americana, ma in quello della chiusura e, peggio, della scelta della instabilità delle idee  per sfuggire alla banalizzazione.   Sarebbe opportuno però che alla fine qualcosa restasse di questo succedersi di periodi in cui parole come epistemologia, o pragmatica, o comunicazione o narrazione hanno riempito i nostri menù…in modo che chi cerca un ristorante o una scuola di cucina familiare-sistemico-relazionale sia più garantito e chi fornisce il servizio più riconosciuto e citato nelle guide gastronomiche: direbbero Berger e Luckmann, in modo che il tipo di lavoro che facciamo sia più inserito nella realtà quotidiana.
   Come sappiamo, la realtà sociale e individuale della vita quotidiana è riaffermata costantemente attraverso l’ interazione con gli altri:  la conversazione è lo strumento che preserva la realtà, indebolendo o eliminandone alcuni aspetti, dando apparente consistenza e stabilità ad altri.
-          Ciao cara, vado al lavoro, ci vediamo stasera
-          Bene, tesoro, prendi il caffè e non dimenticarti la borsa.
Questa conversazione banalissima conferma che c’è al mondo una scansione condivisa del tempo, un qui ed un altrove, un ruolo in casa ed uno nel mondo, qualcuno che si preoccupa per il tuo benessere e sul cui affetto si può contare e che, mica poco, ti garantisce di rivederti la sera …E’ possibile trovare molti altri elementi in questo breve interscambio che ci conferma la continuità e prevedibilità del mondo e la nostra stessa identità: una storia condivisa che ci consente di sopravvivere dando per scontato che non ci saranno terremoti, che sappiamo dove saremo e con chi stasera, che nella vita abbiamo un senso e degli affetti garantiti…
-          Ciao cara, vado al lavoro, ci vediamo stasera
-          Bene, tesoro, prendi il caffè e non dimenticarti la mitragliatrice.
Quest’ ultima parola  dà a molti di noi un improvviso senso di vertigine e un malessere allo stomaco: si può pensare ad un errore di stampa e rileggere la frase, tanto si esce improvvisamente e bruscamente da una realtà quotidiana banale rassicurante. Poi iniziamo a cercare alternative di senso che riportino il mondo sotto controllo, frugando nei sottomondi sociologici, altre realtà condivise ma estranee alla coscienza immediata: sarà un soldato in Iraq? O un poliziotto? O qualcuno che deve portare un regalo a un bambino? O si tratta di un invito metaforico ad essere più aggressivi a qualche incontro importante? Andiamo a frugare in quello che abbiamo letto sul giornale, visto alla TV, sentito dire da un conoscente, conservato tra i ricordi di scuola, con impegno, finché non siamo soddisfatti di aver restituito un senso al mondo, che ci piace pensare solido, duro, controllabile, mentre basta il cambiamento di una parola a rivelarcene l’ instabilità e l’ imprevedibilità.
Le storie che ci portano i nostri pazienti, individui e famiglie, sono storie quotidiane banali condivise socialmente e confermate attraverso la conversazione corrente, noncurante, dalle figure significative: i racconti con cui si presentano sembrano fatti per scoraggiare noi terapeuti. “Da quando era piccino…” “Mi ha visto il prof. Granprestigio che mi ha diagnosticato…” “Sono sintomi incontrollabili…”.
    E’ possibile per un terapeuta confermare la realtà quotidiana che gli viene presentata, magari aiutando a sopportare alcuni aspetti insoddisfacenti, consolando e assistendo; può anche portare dei cambiamenti ampliando una realtà troppo restrittivamente banale; in alcuni casi si contribuisce perfino a mutare radicalmente la realtà soggettiva, con un processo di ristrutturazione che trasporta elementi di sottomondi sociologici alternativi nella realtà dominante.
   Ma anche i terapeuti hanno bisogno di una realtà dominante, condivisa dalla loro comunità, abbastanza solida da dare un senso di identità e di continuità, se vogliono affrontare senza esserne assorbiti le storie iperconfermate che vengono loro proposte; al tempo stesso, devono avere accesso abbastanza facile a sottomondi sociologici alternativi per valorizzare le specificità delle storie che si trovano davanti,senza riproporre in modo ripetitivo, noioso e rigido  interventi che finirebbero  nel ridicolo (vedi prof. Eisendrath!).
  Le nostre premesse condivise, quelle che strutturano la nostra realtà dominante di terapeuti, che trovano continue conferme nella conversazione banale con i nostri colleghi e che tentiamo di passare ai nostri clienti individuali e familiari (Bertrando , Defilippi 2005), non riguardano l’aspetto familiare e non necessariamente quello sistemico, ma sempre quello relazionale, interpretato in un contesto di realismo; sono le relazioni reali,seppur magari conseguenti a modalità relazionali introiettate da tempo, il nostro ingrediente di base.
   Se poi vogliamo ricercare delle modalità di cottura tipiche, quella costruzionista sociale narrativa è la sola (Boscolo, 2008) che possa collegare livelli individuali,anche intrapsichici, e relazionali attraverso l’idea di una realtà comune creata convenzionalmente dagli esseri umani e confermata costantemente attraverso il linguaggio, fondata su elementi banali che danno stabilità e al tempo stesso suscettibile di improvvisi rivolgimenti attraverso la valorizzazione di alternative sempre presenti nei sottomondi sociologici.
   Relazioni e contesto sono quindi gli ingredienti  della nostra identità, la narrazione è la tecnica di cottura universale di noi terapeuti; utilizziamo poi altre sottotecniche speciali (strutturali, strategiche,  paradossali,delle domande circolari, delle sculture…) e una quantità enorme e variabile di strumenti di lavoro affascinanti,utili seppur alcuni sopravvalutati,come schiacciaagli, pelapatate ricurvi, set di lame scintillanti inserite in  scenografici  blocchi di tek… trovate pure voi i corrispondenti nel nostro presente e passato di terapeuti relazionali!

   Per quanto riguarda gli sviluppi futuri della nostra cucina psicoterapeutica, vi sono in questo momento grandi potenzialità e grandi rischi. Le prime sono aperte dallo sviluppo delle neuroscienze, che ha portato al concetto di una mente “relazionale” anche su base biologica; i neuroni specchio in fondo consentono di mettersi nelle scarpe degli altri e di vedersi dall'esterno, due attitudini molto psicoterapeutiche e ricollegabili ad un addestramento ad uscire dalle storie banali quotidiane, a cui corrisponderebbero percorsi sinaptici rigidi, per trovare alternative nei sottomondi sociologici grazie ad una attività neuronale autosservativa, autocritica e autocorrettiva. Ci vorrà ancora molto perché sia possibile seguire l’effetto di una parola, di un atteggiamento,di un intervento specifico sui processi neuronali di un altro essere umano; al momento le correlazioni psicologiche e biologiche sono certe ma generiche, tutt'altro che specificamente descrivibili in dettaglio.
    Quanto al rischio che vedo profilarsi, è la ricerca di una cucina fondata su ricette semplificate e ingredienti surgelati o precotti: sempre più giovani allievi chiedono indicazioni spicciole, tecnicuzze, per condurre la seduta, pressati da un mercato competitivo e angosciati dall'ansia di fare qualcosa che rassicuri loro e i pazienti che stanno facendo terapia…Mi capita di leggere tesine,  resoconti e articoli in cui il processo terapeutico viene ignorato, con una rinuncia al senso della storia presentata e alla sua ricostruzione, sostituito da un programma che prevede tre incontri di joining, tre di genogramma, quattro di sculture, tre di presentazione di fotografie… e così via finché si può. L’eccesso di pragmatismo e di attenzione sul sintomo e sul qui ed ora probabilmente non è stato estraneo all'esito deludente a cui sono andate incontro le terapie familiari negli U.S.A.; è possibile che ne veniamo contagiati anche in  Europa?
    In supervisione indiretta, una allieva promettente e aggiornata mi riferisce di una sua paziente anoressica da 15 anni, collegando l’esordio sintomatico all'inizio della tossicodipendenza del fratello; porta a sostegno  tre sedute di genogramma fotografico in cui ha ricostruito la storia della famiglia…poi emerge che 15 anni prima il padre se ne era andato di casa per mai più ricomparire e che i problemi della paziente e del fratello erano conseguenti a questo fatto!
   Se alla richiesta di mercato, sia per la terapia che per la formazione dei terapeuti,viene data una risposta tecnica banale rassicurante (faccio/insegno tecnica per esser sicuro che faccio terapia/formazione, me lo confermo e faccio confermare difendendo in modo condiviso una realtà dominante …) si perde il contatto la con specificità delle storie e  con i sottomondi sociologici dei clienti e degli allievi…e anche,alla fine, efficacia,finendo per assomigliare al dr. Eisendrath!
    Forse la psicoterapia è l’ultima attività magica, che alcuni di noi praticano usando se stessi e la parola per cambiare lo stato della realtà; ma anche se fosse più spesso un gioco illusionistico, una magia di seconda scelta, che non cambia la sostanza ma muta l’apparenza, i cui trucchi però sono meno faticosi da fare e da insegnare, c’è differenza anche nell'effetto dei giochi di prestigio…David Copperfield fa degli splendidi spettacoli, per i quali ha necessità di supermacchine, collaboratori, giochi di luce e attrezzature fantascientifiche,ma personalmente preferisco chi esegue un trucco in modo semplice, spontaneo, naturale, alla fine di una cena o di un discorso, con tre bicchieri e un po’ d’acqua,così….



Bibliografia

Berger P.L., Luckmann T., (1966),  The Social Construction of  Reality, Garden City, New York, Doubleday and Co.; ed. it. La realtà come costruzione sociale, Bologna, Il Mulino, 1969
Bertrando P., Defilippi O.M., (2005), “Terapia sistemica individuale: effetti di una tecnologia del sé”, Terapia Familiare, 78, pp. 29 – 52.
Casanova G., (1993), Il duello, Vimercate, Meravigli.
Fraenkel P., (2005), “Whatever Happened to Family Therapy?”, Psychotherapy Networker, 29, 3, pp.30 – 40
Manfrida G.M., (1995), “Teorie di giornata, terapie di annata: una critica alla superficialità delle mode in terapia familiare”, Terapia Familiare, 47, pp. 63 – 65
Manfrida G.M., (1998), La narrazione psicoterapeutica: invenzione, persuasione e tecniche retoriche in terapia relazionale”, Milano, F. Angeli
Mosconi A., Peruzzi P., (2008), “Psicoterapia individuale sistemica: intervista a L. Boscolo”, Connessioni, 20, pp. 11 – 26
Moscovici S., (1988), “Le rappresentazioni sociali”, in Ugazio V., a cura di “La costruzione della conoscenza”, Milano, F. Angeli
Simon R., (2005), “From the editor”, Psychotherapy Networker, 29, 3, pp. 2


Relazione per convegno S.I.P.P.R.,  Montegrotto Terme,  Ottobre 2008